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La Cultura Psicoterapeutica e la questione sulle Diversità


La Cultura Psicoterapeutica, chiamo in questo modo le filosofie, l’organizzazione, il sociale e la ricerca sulla Psicoterapia che i professionisti sostengono fuori dal setting, spesso contradditori e lontani dai contenuti che professano con i pazienti https://www.mbpsicoterapia.it/la-cultura-psicoterapeutica/ e https://www.mbpsicoterapia.it/la-cultura-psicoterapeutica-che-guarda-con-un-occhio-solo/ , affronta con ambivalenza anche il tema della diversità, molto diffuso nel quadro di riconoscimento dei diritti dell’essere umano del mondo contemporaneo.

Due sono gli aspetti che mi colpiscono, il primo di natura clinica il secondo più legato alla ricerca.

Partendo dal rapporto con il paziente è fondamentale per la Psicoterapia specificare e distinguere il pensiero sull’essere umano/paziente per arrivare a come si affronta nella stanza la diversità: pertanto pensare prima alle fondamenta e poi all’edificio.

Se una parte della Cultura Psicoterapeutica e non solo, compresi anche ampi sottogruppi della Psichiatria e delle Neuroscienze, affronta la relazione con il paziente vedendo in lui o in lei la psicopatologia come espressione di un’identità costitutiva pertanto strutturale ed ereditata che parte dalle fondamenta, compie un atto ambivalente nell’affrontare il tema della diversità in Psicoterapia.

Il principio etico da una parte proporrebbe l’eliminazione del concetto di diversità dove applicato ad ambiti dell’esistenza umana per cui il diverso è stigmatizzato, dall’etnia, alle provenienze socio-culturali fino alla malattia sia essa mentale o fisica: sarebbero le diversità fonte di giudizi negativi da parte del mondo esterno che, concordo, devono essere superate tramite il riconoscimento della realtà umana come base comune della nostra specie senza altro tipo di clausole.

È un passaggio lento e progressivo che alcune società stanno tecnicamente applicando come principio della convivenza sociale alcune a mio parere con buon successo, altre con la sensazione che sia più un dover dire o professare una certa idea mentre viverla nel quotidiano è più difficile o lontano dal buon proposito ma questo fa parte dei movimenti sociali che hanno tempi e caratteristiche diversi da gruppo a gruppo.

Il mio interesse è rivolto a quello che avviene nella stanza della Psicoterapia e su come si possano integrare, credo con difficoltà, il pensiero sulla diversità e quello sulla malattia come intrinseca e costituzionale del paziente.

Prendo ad esempio il Disturbo Depressivo, ma potrei occuparmi anche di Bipolare e Personalità e per comodità narrativa la chiamo depressione.

Se la depressione rientra in uno stato originario della persona pertanto contenuto nei geni, attivabile dalla relazione con l’esterno, diventando così malattia multifattoriale che nasce dall’incontro di più forze di cui quella prevalente è quella costituzionale, la Psicoterapia nel proporre un un contenuto della relazione umana paziente-psicoterapeuta che escluda chiaramente il giudizio sulla malattia stessa, agisce un potente annichilimento dell’esistenza dell’altro.

Si tratta infatti di interpretare al paziente il significato di categorie di giudizio su se stesso o sugli altri come un qualcosa proveniente dalla paura, dalla resistenza all’entrare in contatto con l’altro, da stereotipi socio culturali mutuati dalla famiglia e dal contesto di appartenenza e incarnati come incapacità di assumere una propria identità e tante altre riflessioni, rimandi, pertanto interpretazioni, che su un piano superficiale possono anche rispondere a verità ma più profondamente entrano in contraddizione con il pensiero proiettato sull’origine psicopatologia del paziente.

Il paziente così avrebbe una diversità implicita, come tale immodificabile che però la Psicoterapia gli trasmette come un’entità con cui si può convivere, che si può accettare, che non si deve considerare un’onta o una vergogna e che quindi sostanzialmente il rapporto psicoterapeutico aiuterebbe a gestire per arrivare al concetto di fine della Psicoterapia come risoluzione dei sintomi o confidenza con essi, rispetto sempre a una condizione esistenziale immodificabile.

Ne risulta un incastro relazionale rischioso perché in sintesi implicitamente lo psicoterapeuta rappresenterebbe l’essere umano con una qualità migliore del paziente perché non ha quella “cosa” intrinseca che è la psicopatologia e dall’alto della sua posizione può aiutare l’altro a convivere al meglio con la sua qualità esistenziale più bassa confortandolo con l’accettazione della diversità simulata dal voler, al contrario, togliere l’etichetta del diverso.

In questo modo il diverso continua a esistere nel pensiero inconscio della relazione psicoterapeutica ma è solo sgravato dal termine e non dalla gravità del contenuto relazionale stesso.

Ancora più complesso il quadro in cui lo psicoterapeuta si identifica con la malattia perché proviene da esperienze personali di sofferenza: lui o lei pertanto incarnerebbe il diverso che ha trovato il modo di gestire al meglio la psicopatologia nella rappresentazione culmine di diventare addirittura colui che si occupa degli altri.

Nella stanza della Psicoterapia si creerebbe una risonanza piena per cui l’uno è di aiuto all’altro tramite l’integrazione della gestione storica del disagio con la sapienza derivata dagli studi, diventando il supporto migliore per il paziente.

Tutto questo nega la realtà umana delle persone, del nostro Potenziale Umano della nascita che non contiene nessuna possibilità per cui esista una psicopatologia intrinseca ed ereditaria https://www.mbpsicoterapia.it/il-potenziale-umano-sintesi/.

Penso come altro esempio, oltre il Disturbo Depressivo che purtroppo prevale sempre più nel mondo contemporaneo con tassi di incidenza altissimi, ben prima dell’era Covid, all’aumento dei così diagnosticati Disturbi dello Sviluppo dell’età evolutiva, una pletora di futuri adulti precocemente incapsulati in un problema, che gli viene buttato addosso, che li pervade, letterale, che diventa l’Io con cui sono obbligati a identificarsi.

La domanda in merito è: questi casi sono in continuo aumento perché si incontrano più geni “malandati” con fattori estrinseci complessi, come la società contemporanea e le sue richieste o forse perché in realtà il pensiero sull’essere umano è alterato nel considerarci possibili portatori della psicopatologia, di una diversità implicita con il venire al mondo di alcuni bambini?

Tutto questo è un’onda lenta ma sempre più ampia che si muove da anni, legata a una rappresentazione della realtà umana condizionata dallo sforzo di dare una supremazia all’individualità a svantaggio della socialità per cui il fare, la performance è oggetto di realizzazione cui proporzionalmente risponde un impoverimento dello scambio, della capacità e dell’intuizione affettiva dell’uno verso l’altro, pensata con pregiudizio come fragilità e debolezza, che inevitabilmente porta sofferenza.

La Cultura Psicoterapeutica anch’essa impoverita in questo pensiero, risponde con la promozione dell’individualismo e del sapercela fare da soli, autonomia a tutti i costi e con ogni risorsa sostenendo inconsciamente un essere umano che alla base non ce la fa, e per questo va continuamente sostenuto e foraggiato nel cercare di essere qualcuno perché da sé non è sufficiente https://www.mbpsicoterapia.it/ancora-su-autonomia-indipendenza-un-nuovo-monoteismo/.

Il secondo aspetto sulla diversità e come questa è proposta e affrontata dalla Cultura Psicoterapeutica è legato alla Ricerca, inteso come lo scambio tra orientamenti, aree della formazione, scuole e approcci teorico-clinici.

In questo ambito la parola Diversità si sovrappone a Integrazione, con un apparente proposta romanticamente positiva di incontro tra i diversi mondi psicoterapeutici.

Un altro termine in voga è Contaminazione: la bellezza della cura della relazione con la relazione, la Psicoterapia, è proprio nel sapersi contaminare tutti, noi professionisti, reciprocamente.

Un’accoglienza totale o quasi perché si propone che la Diversità non sia qualcosa da evitare ma anzi solo e soltanto ciò che ci permette di crescere.

Questa realtà professata è molto lontana dalla realtà applicata perché, nella ricerca di un sempre più necessario individualismo di settore, dal singolo professionista al gruppo metodologico cui appartiene, si snodano verità sottostanti di diverso genere.

La prima, come in tutti i mondi, è di natura economica: la concorrenza è spietata, esiste un surplus di domanda/offerta con eccesso di offerta e non è infrequente osservare forme di accaparramento dei pazienti che sarebbero grottesche se non avessero la drammaticità del non essere etiche ma rischiose per la Psicoterapia.

L’ansia non è solo tra singoli professionisti ma anche tra gruppi o correnti di pensiero, che negli ultimi decenni si sono riprodotte provenendo di solito da fratture interne dei macro gruppi e estendendosi capillarmente in tantissime specie fino a proposte relazionali al limite con l’assurdo.

La Ricerca intesa come Riviste o Convegni è quasi unicamente costituita da diversi sottogruppi che accettano e propongono solo la loro metodologia non riconoscendo realmente la possibilità di integrare per cui l’appartenenza può essere solo per omologazione e non, appunto, per differenziazione.

In questo ambito quindi la diversità è verbalizzata come l’aspetto più bello del confronto della Cultura Psicoterapeutica ma nei fatti è completamente appiattita in isolamento e omogeneità assoluta di pensiero.

Di conseguenza è immaginabile e dimostrabile che gli scritti, che appartengano ai convegni piuttosto che articoli o riviste, si nutrano di premesse ampie e ridondanti che spesso occupano gran parte della dissertazione che non possono che fare riferimento ai pilastri storici o talvolta recenti del singolo modello, potendo citare solo gli autori primordiali e concedendosi molto poco rispetto a pensieri veramente innovativi o comunque fuori dagli schemi concessi.

Le mie riflessioni non sono rivolte a criticare un modo di pensare la Psicoterapia ma all’ambivalenza dei messaggi che spesso la Cultura Psicoterapeutica propone, imponendosi con impeto all’interno della stanza, nella relazione con il paziente, su temi importanti come la diversità, ma poi proponendo fuori dal setting una rappresentazione di sé, culturale per l’appunto, spesso distante da ciò che è professato nella sacralità della stanza.

Potrebbe essere per me poco interessante affrontare questi temi se le conseguenze non si riflettessero poi sulla cura delle persone e parallelamente su un pensiero culturale e sociale sull’essere umano, la responsabilità che abbiamo nel nostro lavoro cammina su un binario appunto parallelo su cui corrono la clinica e il pensiero sull’essere umano, uno è imprescindibile dall’altro e devono muoversi di pari passo con coerenza e integrazione https://www.mbpsicoterapia.it/avvio-di-un-pensiero-unico-come-base-per-la-psicoterapia/.

 

Michele Battuello