Blog
Blog

Ancora sulle Dinamiche Fusionali in Psicoterapia


Riassunto Schematico.

Le dinamiche fusionali sono dinamiche difensive conseguenti a esperienze di assenza di rapporto vissute nei primi mesi dalla nascita, a meno di un anno di vita.

Sono associate a un senso di perdita totale poiché il bambino non distingue ancora il mondo esterno come altro da sé.

Inizia a essere vigile separandosi dal mondo irrazionale che lo avvolge per la gran parte del tempo, necessario al suo fisiologico sviluppo psicofisico.

Con l’inizio del riconoscimento dell’adulto come separato da sé, il bambino sviluppa un potente attaccamento poiché trova salvezza nel rapporto.

Come conseguenza e difesa dall’angoscia di sparizione vissuta come intrinseca, cerca una forma simbiotica-fusionale con l’altro.

Ogni separazione è drammatica nel suo proporre la perdita di sé e, affrontarla, il bambino proietta tutta la sua vitalità sul rapporto, mortificando la fantasia al bisogno di mantenere dinamiche inconsce di attaccamento e vincolo.

 

Una caratteristica specifica delle esperienze di angoscia precoce correlate al non esserci del genitore nei primi mesi di vita è che, a differenza di esperienze successive, posteriori alle prime importanti separazioni, dal seno materno all’inizio del gattonare, la quantità prevale sulla qualità.

La qualità, definita dall’intensità della percezione, è tutto o nulla, vita o morte, pieno o vuoto, proprio perché non esistono sfumature offerte da esperienze precedenti e dall’ancora scarso sviluppo dell’intero sistema nervoso, quindi il bambino conosce il pieno della risposta affettiva della nascita e del periodo successivo, come pienezza di sé ma se manca tale risposta vive il vuoto della perdita del senso stesso di sé.

I pazienti che da adulti, in Psicoterapia, affrontano lo zero della perdita, l’angoscia, spesso presentano un modo di vivere le emozioni nei rapporti che riproduce il blocco affettivo che hanno esperito precocemente, associando alla presenza o all’assenza della relazione significativa con il partner un valore assoluto di tutto o nulla e, di nuovo, vita o morte.

Se la quantità, la frequenza e la durata, delle esperienze di assenza di risposta affettiva del genitore, fosse continua, non ci sarebbe possibilità di vita e di crescita psicofisica con un inevitabile arresto e chiusura involutiva precoce del bambino che potrebbe sovrapporsi ai quadri clinici di autismo grave inteso come autodifesa totale e rifiuto del mondo circostante.

Nella maggior parte dei casi che si incontrano in Psicoterapia, l’esperienza angosciante è stata spesso puntiforme o saltuaria, così da permettere spazi e tempi di risposta affettiva per nutrire e sostenere il nucleo centrale di identità del bambino che chiamo Potenziale Umano https://www.mbpsicoterapia.it/il-potenziale-umano-sintesi/ , impedendo una chiusura completa alla relazione con gli adulti di riferimento.

Il bambino ha potuto comunque esprimere un investimento sull’esterno, pur allertato dal rischio di perdita e, come detto, tanto più dopo i primi sei mesi di vita con il riconoscimento dell’altro da sé, ha attivato un’identificazione potente con l’adulto stesso che percepisce come salvifico e per mantenere a tutti i costi quel rapporto, che diventa un vero e proprio legame, ha utilizzato tutte le risorse affettive a disposizione.

Così inizia a strutturarsi il meccanismo di difesa che ha l’obiettivo di sfuggire il più possibile al nulla, fondendosi nel rapporto e dedicando tutte le energie vitali a possedere concretamente l’altro che equivale alla costruzione di una personalità che in apparenza è molto coinvolta sul piano relazionale ma in realtà non si concede una vera affettività e piena messa in gioco perché il nucleo identitario vitale deve essere protetto dal rischio di perdita e conseguente annullamento.

In altri casi prevale una personalità nettamente evitante, più facile da riconoscere insieme a tutte quei profili che rientrano nei disturbi di personalità conclamati.

Esiste un ampio mondo di mezzo rappresentato da pazienti che hanno imparato a proteggere abilmente l’angoscia di perdita tramite le risorse affettive messe a disposizione dei meccanismi di difesa per essere amati e conquistare la relazione compresa quella psicoterapeutica.

Le dinamiche su cui si lavora pertanto sono principalmente quelle identificatorie legate a paure, incertezze, scarsa autostima di sé che sono affrontate e trasformate nel processo psicoterapeutico senza spesso rendersi conto che il miglioramento è finalizzato a rendere più efficaci le strategie di gestione dell’ansia e della paura relazionale per garantire meglio il bisogno vitale di legarsi all’altro per evitare l’angoscia di morte della perdita.

In sostanza il paziente si vincola, adattandosi meglio, ancora di più alla relazione con inevitabili benefici poiché trova il modo di soffrire di meno per ottenere il rapporto.

Il risultato è tangibile sempre e solo fino a quando le dinamiche relazionali sono soddisfacenti ma, non appena, si intravede l’ombra del rifiuto o della perdita il paziente o ex paziente, si ritrova ugualmente nell’angoscia che, o riemerge in tutta la sua potenza, o al massimo è attutita da una capacità di gestione acquisita nel tempo anche grazie alla Psicoterapia.

Per questo mi focalizzo sull’evidenziare quanto sia importante intuire e riconoscere i numerosi casi che per storia e qualità relazionale non sembrano evidentemente appartenere alle dinamiche fusionali precoci ma ai processi di identificazione che insorgono dopo il primo anno di vita e che invece hanno costruito, solo perché la quantità dell’esperienza di assenza è stata circoscritta o saltuaria, un’eccellente difesa utilizzando la qualità affettiva per proseguire in qualche modo la crescita ed entrare a far parte del mondo degli adulti.

Una caratteristica frequente ma sottile e ambigua è legata, per esempio alla capacità di ricordare i sogni.

Il ricordo onirico esprime senza dubbio un contatto con un sé profondo e nucleare di vitalità che, in Psicoterapia soprattutto, racconta la possibilità e in qualche modo il desiderio di sentirsi riconosciuti offrendo un canale affettivo alla relazione che è proprio il ricordo del sogno.

L’ambivalenza si riscontra però quando alcuni pazienti non riescono ad accogliere l’interpretazione del sogno, anche se ne rimangono interessati e affascinati: memorizzano il concetto dell’interpretazione respingendo totalmente l’intuizione affettiva dello psicoterapeuta perché, riconoscendo quei tratti vitali, egli mette a rischio il bambino difeso e protetto del paziente che emergendo, potrebbe rivivere l’angoscia precoce del perdersi https://www.mbpsicoterapia.it/quando-non-e-efficace-interpretare-i-sogni-in-psicoterapia/ .

Sono quei casi in cui il paziente oltretutto, per aderire alla relazione psicoterapeutica, racconta spesso quanto quello che è stato esplorato nelle sedute poi abbia funzionato, attivando cambiamenti e risultati relazionali ma che in realtà rimangono solo razionali, coscienti, capiti e agiti con il pensare e non con il sentire e andando così, come dicevo prima, a migliorare, rendendoli più flessibili, i meccanismi di difesa.

La seduzione di questi risultati deve essere distinta dall’inconsistenza affettiva nel sentire i risultati stessi: sono compiti eseguiti e non realizzazioni, sono emozioni vere ma asservite al rendere più amabile la persona (il paziente) che si deve conquistare a tutti i costi l’altro e così continuare a difendersi.

Ben oltre la classificazione diagnostica dei Disturbi di Personalità credo che sia fondamentale riconoscere questa diffusa presenza nelle persone che intraprendono un percorso psicoterapeutico dei nuclei di angoscia legati a vissuti di assenza relazionale precoce dei primi mesi di vita che hanno portato il bambino alla necessità di costruire dinamiche di fusione con l’altro non appena il genitore è diventato visibile e distinguibile tridimensionalmente.

Le risorse affettive comunque attivate con l’ambiente esterno hanno permesso nel tempo di trovare la strada più efficace per oscurare il nucleo vitale originario di sé perché associato a esperienze di morte.

Il paziente ha pertanto espresso nelle relazioni in prevalenza gli aspetti identificatori, originati in un periodo successivo della crescita quando era oramai possibile riconoscere l’altro oltre sé e che sono serviti a soppiantare, in apparenza, il rischio di perdita totale di sé.

In molti casi le dinamiche identificatorie coprono abilmente dinamiche più profonde e complesse come quelle fusionali che esprimono il bisogno assoluto di avere l’altro in tutto e per tutto così da non rischiare la morte.

Se questi vissuti antecedenti all’instaurarsi dell’identificazione, non sono intuiti e risolti, portano la relazione psicoterapeutica a trasformare, anche in maniera importante, gli aspetti clinici che si riferiscono solo alle dinamiche accessibili per il paziente, lasciandolo però ancora in trappola dell’angoscia di separazione e del rischio di vuoto.

A mia esperienza questo non riconoscimento è rappresentato da un numero sempre più ampio di pazienti che interrompono le Psicoterapie, spesso dopo un lungo periodo di alleanza, che stanno nuovamente male, che hanno continuato a stare male o che sentivano delle risposte mancanti nelle precedenti Psicoterapie.

In non pochi casi mi sono reso conto, dai racconti ma soprattutto poi dalla nostra alleanza psicoterapeutica, che alcuni nuclei facenti capo al senso di vuoto e all’angoscia precoce non erano stati esplorati né tantomeno intuiti e, in effetti, erano molto difesi dal paziente stesso.

Rispetto al pensiero sull’essere umano che tanto sostengo https://www.mbpsicoterapia.it/la-cultura-psicoterapeutica-che-guarda-con-un-occhio-solo/ ho anche riscontrato situazioni in cui, l’espressione di quell’angoscia informe, associata solo a immagini di vuoto, di spazio cosmico in cui perdersi e pertanto di morte, proprio perché non avevano un oggetto (apparente) cui far riferimento, sono state spesso interpretate come nuclei congeniti di sé, un’eredità da correlare a un bambino nato già con questo deficit emotivo, una disregolazione intrinseca.

Ho sempre rifiutato questo approccio alla persona-paziente nel momento in cui è possibile riconoscere dinamiche che hanno determinato un’esperienza così drammatica che è tutt’altro che intrinseca e che ho sempre ritrovato e risolto sia nell’intuizione della relazione e nell’interpretazione dei sogni: non solo l’angoscia è riconducibile a un rapporto che l‘ha determinata ma soprattutto è rintracciabile la risorsa affettiva del paziente che racconta sempre che non è stata morte e angoscia fin dall’inizio ma la vitalità e la fantasia si sono attivate come per tutti gli esseri umani dalla nascita fino al sopraggiungere di esperienze di assenza di rapporto da parte dell’adulto di riferimento.

 

Michele Battuello