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Sugli incontri di valutazione e la libertà di scelta

Prima ancora del contratto psicoterapeutico esiste la valutazione: gli incontri servono a una ricerca delle reali possibilità del paziente di intraprendere una psicoterapia.
È la fase a mia esperienza più complessa perché non serve a fare diagnosi nel senso categoriale nosografico ma è rivolta all’attivazione rapida delle risorse del paziente stesso e quando mi riferisco a una ricerca di possibilità del paziente, parlo di un tempo che non è selezione in base alla psicopatologia ma è restituzione al paziente di una vera realtà di cura.
Gli incontri non hanno un tempo determinato perché è sempre soggettiva da persona a persona la modalità di ingresso nella relazione.
Il racconto, le domande, le preoccupazioni, le angosce e le sofferenze che ci sono portate hanno certamente una rilevanza ma non quanto l’attivare in maniera diretta e indiretta un’iniziale consapevolezza di via di uscita rappresentata dal non essere la propria malattia.
Il paziente è convinto e vive se stesso come identificato con il suo malessere, il nostro obiettivo è di riportarlo a un dato di realtà che non contiene la sovrapposizione con la patologia ma un’identità in cui si sono inseriti, a un certo punto, degli ostacoli che possono essere risolti.

Questa proposizione di lavoro contrasta con una parte del pensiero contemporaneo che considera alcune patologie come se appartenessero alla persona da sempre, costituzionali, chiamandole “a eziologia multifattoriale”, per cui il lavoro farmacologico e/o psicoterapeutico ha la funzione di migliorare il più possibile questa condizione irrisolvibile perché originaria.
Non è possibile pensare e proporre un certo tipo di cura che nega l’umano nel momento in cui nega la fisiologia.
La psicoterapia è la cura della relazione con la relazione quindi la possibilità di guarigione.
Negli incontri di valutazione spesso il paziente rimane incredulo di fronte a questa proposizione perché come prima cosa non crede di poter stare meglio quando i sintomi diventano così pervasivi.
In secondo luogo, non di rado ha avuto precedenti esperienze cliniche che o per risultati parziali e/o per rimando diretto, non gli hanno proposto la possibilità della cura come guarigione.

Aggiungo che i meccanismi di difesa hanno messo in guardia il paziente stesso rispetto al benessere perché in origine piacere e riconoscimento erano negati dalle dinamiche familiari: è chiaro quindi che il rapporto che propone cura come la possibilità di ritrovare il piacere negato, mette inconsciamente in allarme la persona.
Soprattutto però mi preme rinforzare come messaggio sociale, antropologico e umano, la possibilità della relazione come cura, anche se ci sono variabili che possono non renderla attuabile nel momento in cui abbiamo di fronte il paziente.
Le situazioni che non permettono l’inizio di una psicoterapia, non in assoluto, ma nel qui ed ora sono, ad esempio, il rapporto con lo specifico psicoterapeuta, la difficoltà, legata ad angosce profonde, a mettere in luce le risorse fisiologiche perché storicamente aggredite e non riconosciute e la pervasività della sintomatologia che richiede un intervento primario di altro tipo.
Tutte queste motivazioni sono dipendenti dall’oggi del paziente e della relazione, ma non immodificabili nel tempo per causa di un’inverosimile origine innata della patologia.
Pertanto può accadere che alcuni fattori quante sono le differenti realtà umane, non rendano attuabile il processo di cura in un dato momento o periodo storico della persona.

Come psicoterapeuti dovremmo essere in grado di accettare l’esatto opposto della cura, la non-cura nel caso che la persona non voglia essere curata, la libertà di poter scegliere, nonostante indicazioni, suggerimenti e forzature, comprensibili da parte di chi le sta intorno, ma non sul piano soggettivo di chi vive dolore e disagio.
Il non avere voglia e la possibilità di scegliere di rifiutare una cura sono un diritto insindacabile di ognuno di noi che pur nella sua drammaticità vanno rispettati.
Nessuno, fuorché la persona, può stabilire cosa è giusto o non giusto fare per se stessa, cosa deve riuscire o non riuscire a fare, perché nessuno fuorché lui o lei può sapere cos’è veramente il proprio dolore.
Se in un certo momento chiede, decide e sceglie di non essere aiutato, dopo le opportune proposte e sollecitazioni, dovremmo saper riconoscere personalmente e professionalmente, un’identità importante in quella persona indipendentemente dalla sua malattia.
Identità esercitata nella possibilità di scegliere e dire no in quanto non esiste un dolore più grave di altri o paragonabile ad altri, esiste solo la nostra esperienza di dolore insindacabile e soprattutto non provabile da nessuno se non da noi stessi.

Chiunque chieda e voglia sottrarsi a quel dolore ha già senza dubbio cercato un modo per poterlo affrontare, reggere e gestire chiedendo aiuto o meno, se non vuole affrontare in un dato momento questa complessità, dovremmo essere i primi a fare un atto di riconoscimento di identità umana e comprenderlo.
È proprio quella risposta che in alcuni casi il paziente cerca, la comprensione che di fronte a noi può anche permettersi di esprimere il non volere farcela e sentirsi compreso e accolto.
E al contrario di quanto ci si possa aspettare, il vero riconoscimento di questa realtà diventa motore di fiducia e di speranza di cambiamento anche se inizialmente la prima volontà e risposta è stata “non mi va di affrontare un percorso che ora mi può portare a toccare tasti che non voglio spingere”.
L’esperienza dimostra che restituire al paziente l’importanza e il significato del rifiuto come capacità di scelta e pertanto il sostenere che a maggior ragione la porta della psicoterapia è sempre aperta ha portato in molte situazioni a intraprendere il percorso anche se in tempi successivi.

Noi non siamo quelli che risolvono i problemi in assoluto, siamo quelli che come prima cosa riconosciamo ed entriamo veramente nell’altro e solo grazie a questo atto, lo possiamo aiutare.
Nell’esperienza clinica credo capiti a tutti i professionisti di incontrare pazienti che raccontano tanti obblighi dai quali si sentono responsabilizzati: ci presentano tanti “devo” che se per fantasia li togliessimo dalla conversazione, non rimarrebbe forse quasi nulla di cui parlare.
Gli imperativi cui rispondono come fondanti la motivazione esistenziale, vengono dallo psicoterapeuta affrontati nelle loro radici storiche e passate.
Mi soffermo però a pensare quanti sono i “devo” che in maniera diretta o indiretta sono proposti talvolta anche in psicoterapia, diciamo involontariamente, anche se ho le mie perplessità sulla presunta incoscienza della direttiva, e che disconfermano quello che verbalmente viene invece sollecitato al paziente che sarebbe in teoria, il lasciarsi andare alla relazione e non rispondere a degli obblighi.

Invece il devi farcela è spesso proposto a tutti i costi e il rifiuto interpretato come resistenza o fuga e in questo modo la relazione perde la sua efficacia.
Il messaggio frequente di imparare, sforzarsi, avere coraggio di affrontare una situazione difficile che proviene dai racconti dei colleghi e/o dei pazienti, mi suona spesso come un accanimento terapeutico di riuscire ad affrontare una situazione.
Al contrario, per un certo periodo, trovo un riconoscimento di realtà, concedere la possibilità al paziente di non dovercela per forza fare: dove tutti intorno, timorosi del dolore, propongono sempre i vari sottoinsiemi del “fatti forza, passerà, tieni duro”, incoerenti ma comprensibili, lo spazio psicoterapeutico diventa anche un momento in cui al contrario, la persona può concedersi di sentirsi persa e spaventata.
Non è malattia ma coerenza con il dato di realtà.
È chiaro che il paziente può vivere nel lutto, dinamiche personali che rendono il vissuto ancora più insostenibile, ma il riuscire ad affrontarlo ha anche la possibilità di non sentirsi in dovere di funzionare o a rischio se si lascia andare e lo vive per quello che è e per come arriva, compreso il volerlo rifiutare o non affrontare anche in uno spazio protetto ed elaborativo come quello psicoterapeutico.
In questo caso, di fronte a tale proposizione ho visto all’inizio lo sgomento e la paura del paziente ma poi immediatamente dopo la rilassatezza, il sentirsi accolto nel poter affidare all’altro ciò che ritiene inaffrontabile.
Tutti gli psicoterapeuti conoscono le fasi del lutto e della sua elaborazione ma poi quando ci si trova di fronte al dolore intenso e forte dell’altro si tende comunque a tamponarlo, proponendo una riemersione.
Il risollevarsi è per me possibile quando prima si è offerta anche l’opzione di non farcela, come è naturale che sia.

 

Michele Battuello