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Ripensare la Psicoterapia ai tempi del Coronavirus

La pandemia che stiamo vivendo e attraversando ci obbliga a modifcare drasticamente la nostra vita.
L’emergenza e le conseguenze dell’emergenza sono sotto i nostri occhi e i postumi si avvertiranno nel breve e medio periodo, mantenendo speranza e positività per il lungo periodo che invece speriamo possa lasciarsi alle spalle tutto questo.
È possibile prevedere e immaginare che l’intera collettività, come già accade, dovrà modellarsi su questo spartiacque della storia contemporanea rappresentato dal prima e dopo Coronavirus.
Stravolgimenti delle abitudini della popolazione globale si sono osservati durante le Guerre Mondiali, come ultimi eventi di portata così ampia, e proprio perché si tratta di una pandemia ne è coinvolto il mondo intero.
È così strano pensare al “mondo intero” perché anche i più gravi problemi internazionali, nella loro vastità, hanno coinvolto sempre ampie ma comunque limitate zone del nostro pianeta, il terrorismo, i fenomeni metereologici e geologici così frequenti degli ultimi decenni, le guerre e tanto altro.
Alcune volte più vicine, anzi dentro il nostro paese, come i terremoti recenti, altre volte più distanti, ci sono comunque apparse situazioni incredibili e spaventose.

La portata e l’impatto dell’oggi è invece ancora difficile da comprendere pienamente e da far rientrare all’interno di qualche categoria di esperienza vissuta o ascoltata che ci possa fungere da parametro di riferimento e infatti la percezione per molti che non sono immersi nelle trincee ospedaliere è parziale.
Questa è una nuova unità di misura che purtroppo avremo a disposizione per confrontare le esperienze future sperando che non raggiungano mai più tali drammaticità.
Siamo obbligati a prendere confidenza con qualcosa che non avremmo voluto conoscere e mai come oggi, da quando ho memoria della mia esistenza, le persone sono così uguali perché la biologia, nello specifico il virus, non guarda differenze di pelle, ceto sociale, appartenenza culturale, al massimo guarda alla biologia stessa e quindi colpisce alcuni soggetti “diversi”, meglio dire svantaggiati nelle condizioni di salute del proprio organismo.
La collettività oggi non è il sociale, culturalmente inteso, ma gli esseri umani, tutti.
Non abbiamo potuto scegliere di fronte al virus e i familiari delle vittime presenti e future, nonché tutti i centri che attraversano e attraverseranno l’emergenza sono stravolti dagli accadimenti e quelli di noi meno direttamente interessati dalla malattia vera e propria sono e saranno comunque preoccupati se non angosciati.

L’infiltrazione del Coronavirus sappiamo che non riguarderà purtroppo solo i coinvolti nella malattia stessa ma tutto il Paese, mi concentro sul Paese Italia per restringere il campo di riflessione sulla pandemia, perché le conseguenze saranno multistrato, sanitarie, economiche, culturali, lavorative e a catena tanto altro con conseguenze psicologico-emotive delle più svariate.
La macchina della Psicologia delle Emergenze è già in moto e lavorerà a lungo nei prossimi mesi e questa, come l’assistenza sanitaria è ovviamente l’esigenza primaria cui bisogna rispondere e che viene in cima a qualsiasi cosa.
Credo anche che oltre l’emergenza o, forse, insieme all’emergenza sia necessario iniziare a pensare in maniera nuova la Psicoterapia.
Non parlo di un modello nuovo ma di una diversa prospettiva di visione dell’essere umano profondamente legata a quello che stiamo vivendo.
Nella cura della relazione con la relazione, la psicoterapia, il sociale, preferisco chiamarlo il collettivo, avrà una rilevanza maggiore rispetto al singolo, scalzandolo dal podio che negli ultimi decenni aveva ottenuto.
Fino a qualche giorno fa, infatti, avevo pronte le seguenti considerazioni.

Non è una novità che gli ultimi anni ci propongano dinamiche sociali che sono maggiormente rivolte all’individuo, alla prevalenza dell’uno sui molti, alla scarsa fiducia nell’altro, alla poca apertura verso il nuovo e il diverso e senza affrontare descrizioni complesse, alla chiusura dell’individuo rispetto al gruppo.
Me ne occupo nel mio campo di appartenenza, chiaramente la psicoterapia. Rilevo nel tempo un progressivo depauperamento del valore sociale della relazione con gli altri e questo è maggiormente osservabile nel lavoro di gruppo. Il pensiero, le immagini dei sogni, la predisposizione dei pazienti hanno un taglio sempre più individualistico come se si stesse acquisendo un modello culturale di dominanza e necessità del singolo o non oltre la relazione duale.
Nella stessa elaborazione profonda dei sogni, materiale a mio avviso dirimente anche degli aspetti storici acquisiti inconsciamente da ognuno di noi, le immagini che emergono, pur non modificando il processo elaborativo e di cura in corso, sono sempre più prive di riferimenti al sociale, al mondo e più in generale, agli altri.
Il nostro Sistema Nervoso come sappiamo, registra centinaia se non di più immagini istante dopo istante e permette l’accesso a quelle che rimangono impresse perché associate a uno stimolo emotivo, in numero limitato e ripetitivo in confronto all’enorme quantità di dati a disposizione.
I sogni utilizzano in forma più spontanea e libera, durante il sonno, le immagini a disposizione e riportandole integrate dalla specificità dell’elemento di fantasia e, anche se tali immagini sono utilizzate per raccontare stati d’animo, dinamiche, vissuti strettamente personali, il catalogo cui attingere è altrettanto vasto.
Tale catalogo non è utilizzato in maniera casuale ma sicuramente la selezione ha anch’essa un connotato emotivo-affettivo rispetto a ciò che la coscienza ci concede di trattenere al risveglio perché emotivamente tollerabile.
Come accennavo, dall’archivio che possediamo, negli ultimi anni assisto a un progressivo impoverimento della scelta inconscia e a un circoscrivere molto frequente la possibilità a limitatissimi sottogruppi di immagini confinate quasi sempre alla stretta cerchia di conoscenze del paziente.
Credo che la spiegazione risieda in un’attitudine storica più che personale al rivolgere una maggiore attenzione al sé e al piccolo della propria comunità, in mancanza di figure di riferimento che riescano a fare da presa sull’inconscio collettivo.
Anche se queste figure esistono perché l’umanità fuor d’ogni dubbio ne possiede ancora abbondantemente, si sta sviluppando una matrice individualistica che distoglie dall’interesse esterno o vi è anche la possibilità che un eccesso di immagini a cui affidiamo ogni giorno di più il nostro interesse tramite il web porti a una diminuzione della capacità di poter selezionare in base allo stimolo affettivo generato da quella immagine.
Queste rilevazioni, sempre più frequenti, sono di slancio per una riflessione vera sullo stato dei tempi delle relazioni e del modo di interagire tra esseri umani legata allo storico sociale che stiamo attraversando ma soprattutto sono da me utilizzate in psicoterapia nel processo gruppale.

Iniziamo a pensare che questa situazione che, ripeto, descrivevo fino a pochi giorni fa, non sarà riproposta dalla società post emergenza.
Sono convinto che il nostro lavoro si muova su due fronti contemporanei: da una parte affrontiamo con i pazienti inevitabilmente i messaggi e i contenuti che il mondo ci propone elaborando quei significati che, internalizzati, si traducono in un indurimento della personalità.
Tale introiezione risponde a dei meccanismi di difesa originari e consente di trovare una sorta di certezza per andare avanti ma allo stesso tempo imprigiona l’individuo, obbligandolo ad adottare degli schemi comportamentali necessari per sentirsi inserito e amato da un contesto, familiare, lavorativo e, più in generale, sociale.
Sul piano storico, come psicoterapeuti, cerchiamo pertanto di svincolare la persona dal disagio che quello schema, al momento che si è instaurato, pur se necessario, ha generato rispetto alla libera espressione di sé.
L’altro fronte è però anche di essere in grado di anticipare il pensiero contemporaneo laddove si scorgano dei segnali di cambiamento, come stiamo vivendo in corso di pandemia.

Nello specifico, la maturazione di un processo di pensiero diverso rispetto al sociale è un qualcosa che parte dal nostro vivere come professionisti/esseri umani, il cambiamento, e portarlo progressivamente all’interno del nostro lavoro.
Poiché credo che non vi sia dubbio che tale trasformazione non possa essere fatta razionalmente nel setting, non siamo infatti portatori di regole o concetti, l’unica possibilità è che si realizzi come processo progressivo spontaneo di pensiero sul sociale.
Il rapporto duale, in primis madre-figlio, come quello psicoterapeuta-paziente, continuerà ovviamente a esistere e avrà sempre la sua rilevanza affettiva per lo sviluppo psico-fisico dell’essere umano e la cura del paziente ma le nuove madri così come i nuovi psicoterapeuti (non solo i neo professionisti ma anche i “vecchi” psicoterapeuti in continua evoluzione) saranno contestualizzati in una realtà circostante completamente diversa.
Posso pensare che la relazione sarà meno impregnata dell’individualismo che ha così permeato gli ultimi decenni e che risentirà maggiormente del noi circostante più che dell’io o dell’io e te.

L’importanza di un intero sistema relazionale, e non solo familiare, acquisirà una rilevanza maggiore rispetto a ieri che in molti casi era vissuto come poco importante, certe volte con sospetto o con gelosia del proprio spazio e tempo, confinandoci all’avere presunte certezze, pertanto all’io sono meglio di te.
La collettività, rispetto al trauma Coronavirus, avrà la possibilità di riparare al danno dell’esclusione del gruppo a vantaggio del singolo o della coppia e noi psicoterapeuti/esseri umani dobbiamo iniziare a pensare questa evenienza per farla, più di prima, tornare parte integrante della nostra pelle.
Perché lo psicoterapeuta, parlo anche del sottoscritto, inevitabilmente, porta su di sé e dentro di sé questi anni di individualismo e seppur nel proprio lavoro, compreso quello gruppale, si è adoperato all’apertura del paziente al mondo, alle relazioni, al sociale, comunque ha un’identità permeata da questi ultimi decenni di prevalenza del singolo e si deve confrontare invece con un sociale che a valanga ci sta arrivando addosso.

Questo stravolgimento ci porta a vivere una necessità di adattamento ma anche un’occasione di ritrovare quello che la storia e l’antropologia ci dimostrano, discipline che descrivono le rappresentazioni coscienti della fisiologia umana, e cioè che siamo animali sociali e non possiamo prescindere da questo.
Quando, per vari motivi, ci siamo sottratti a questo dato di realtà, ci siamo sempre ritrovati nel disagio e la conferma sotto gli occhi di tutti è che il Disturbo Depressivo ha raggiunto se non oltrepassato le patologie cardiovascolari come prima malattia presente nel mondo.
La Psicoterapia può ripensare la Psicoterapia, per quanto mi riguarda ho la sensazione che il contenuto dello spazio dedicato al lavoro di gruppo sarà amplificato dall’inevitabile impatto della collettività sul singolo individuo così come il lavoro individuale si fonderà sul duale/sociale dello psicoterapeuta e del paziente entrambi post Coronavirus.
Seguiranno ulteriori riflessioni in corso d’opera.

Michele Battuello