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Psicoterapia combinata individuale/gruppo 2


Il processo di Separazione

Intorno al primo anno di vita, ma la definizione del periodo è solo una semplificazione descrittiva poiché ogni processo è soggettivo in termini di tempo, inizia una fase di svezzamento/separazione, rappresentata essenzialmente, dal rendersi conto da parte del bambino che esiste un mondo fuori dalle braccia dell’adulto, cui può far riferimento, che offre un’altra possibilità di rapporto e che soprattutto lo incuriosisce e lo attira.


È una fase che coincide con le prime autonomie rispetto ai bisogni
, ben raccontato dagli specialisti dell’ambito evolutivo, per me è di interesse come fase all’interno della psicoterapia.

Il processo di separazione permette al bambino la progressiva vita autonoma, preparandolo alla relazione con il mondo con cui si confronterà per il resto della propria esistenza.
Ogni passaggio della nostra vita è regolato da separazioni perché è il nostro modo specie-specifico di essere esseri umani, rivolto non alla sopravvivenza come per gli animali ma all’incremento delle nostre possibilità e capacità con la continua messa in discussione.
Nel linguaggio corrente, la parola separazione è associata spesso a qualcosa di negativo, infelice, triste poiché evoca il vissuto di lutto e perdita ma non è assolutamente così, anzi è la rappresentazione di un passaggio da uno stato a un altro più evoluto perché più arricchito dall’esperienza appena terminata che si va ad aggiungere a quelle vissute in precedenza.
Separazione è andare avanti con un bagaglio di identità accresciuto: la sperimentiamo da molto piccoli con lo svezzamento al seno e la continuiamo a vivere quando cominciamo a camminare, ad andare a scuola e sempre più nell’adulto che si separa per cercare qualcosa di nuovo, di diverso, di migliore.
Il pensiero che propone separazione come possibilità di andare avanti e accrescere la nostra identità non esclude che ogni passaggio sia semplice, anzi è spesso permeato di fatica e dolore perché comunque contiene il lasciar andare qualcosa di conosciuto per affrontare l’ignoto, lo sconosciuto.

Dolore e fatica non sono sinonimi di malessere e patologia, esperienze che invece si attivano nel momento in cui il processo di separazione rievoca paure storiche e precoci nell’esperienza di separazione dal rapporto duale, madre-figlio.
Perché per separarsi c’è sempre necessità di un atto affettivo nei confronti della relazione che in origine ci deve permettere di diventare autonomi offrendoci la certezza del rapporto, dell’esserci anche nel non esserci, che quindi non è assenza dell’altro ma è riconoscimento di identità che la madre fa verso il figlio.
Così come per il figlio anche per la madre/adulto di riferimento, la separazione è complessa e dolorosa, senza dubbio, ma se riesce a non implicare bisogni irrisolti storici di controllo, paura di abbandono e altro, avviene in forma assolutamente fisiologica.

Il bambino può permettersi di esplorare il mondo intorno a lui nel momento in cui la madre non c’è perché la certezza del rapporto gli offre progressivamente un tassello di identità e tenuta di sé che contiene l’immagine del rapporto non come bisogno di, altrimenti il non esserci della madre, diventa assenza e con essa le conseguenze descritte: paura, angoscia, blocco nel proprio processo evolutivo e strategie difensive per poterlo comunque portare avanti, generando una frammentazione dell’identità che potrà ricomparire come psicopatologia dell’adulto.
Separazione è quella che avviene in psicoterapia alla fine di ogni seduta e che permette a entrambi i membri della relazione, psicoterapeuta e paziente, di trovare un modo personale di rielaborare quello che ci si è giocati all’interno del setting come identità.
Il paziente chiaramente si confronta con del materiale ogni volta nuovo con cui farà qualcosa, dei passaggi necessari per mettere in crisi le dinamiche disfunzionali e progressivamente attivare e sperimentare nuove possibilità di realizzazione che si apprezzeranno durante le sedute successive.
Lo psicoterapeuta si separa a sua volta, portando il materiale vissuto in psicoterapia come accrescimento della propria identità che sarà valorizzata da ogni esperienza intra ed extra psicoterapeutica da cui si è separato, giorno dopo giorno.

Ricapitolando, durante la psicoterapia individuale si attivano due dinamiche fondamentali: recupero del primo anno di vita nei suoi aspetti validi come capacità di lasciarsi andare e separazione come recupero di autonomia.
Tali dinamiche sono rappresentate con l’inizio della seduta, come il lasciarsi andare al primo anno di vita e la fine dell’incontro come separazione che vanno necessariamente evidenziate al paziente al momento opportuno.
L’entrare nella seduta contiene elementi vitali che fanno capo al primo anno di vita e che sono rimasti attivi, cioè la capacità parziale di lasciarsi andare e la fine della seduta come capacità residuale di svezzamento/separazione per reggere la frustrazione settimanale dell’intervallo.

I pazienti che vediamo in psicoterapia sono persone che hanno vissuto un primo anno di vita fondamentalmente riconosciuto dagli adulti di riferimento quindi con una qualità affettiva discreta se non buona ma il processo di separazione è stato in qualche modo ostacolato.
Sono pazienti che hanno una sufficiente identità di base che gli permette di mantenere il rapporto psicoterapeutico e le loro difficoltà sono invece sulle autonomie.
Più che una diagnosi categoriale questa apparentemente semplice distinzione ci permette di capire se il nostro lavoro possa essere efficace per quella persona.
È una distinzione di qualità e non di quantità sulla fisiologia ancora attiva, unica reale risorsa per il cambiamento.
Per questo lo psicoterapeuta può e deve essere presente e attivo nella relazione fin dai primi incontri, compresi quelli di valutazione, perché richiede e propone esplicitamente un qualcosa che al paziente arriva spesso come nuovo e difficilmente pensabile e cioè il rendersi conto insieme delle risorse presenti e di quanto siano attivabili a dispetto del malessere preponderante, e necessarie per affrontare la patologia.

Il processo di separazione è un periodo ampio che nello sviluppo del bambino dura fino all’adolescenza che ha il significato del raggiungimento dell’autonomia per iniziare la vita adulta.
Non mi soffermo sulle considerazioni sui tempi dell’adolescenza ai giorni nostri, molto prolungati, perché è più rilevante per il processo psicoterapeutico, il periodo di separazione/svezzamento che coinvolge fino a 3-4 anni di vita.
Le immagini dei sogni fanno emergere dinamiche e vissuti di separazione sempre tra i 2 e i 4 anni, poiché in questo periodo iniziano le prime autonomie che mettono più in crisi il genitore e di conseguenza il bambino.
Il senso di non poter più controllare il figlio come invece era più possibile con il neonato o il lattante, il rischio della perdita nel momento in cui comincia a camminare, la frustrazione dei no e dei rifiuti e molto altro che si attiva in questa fase, rendono il periodo critico per il genitore che non si trova più a dirigere il rapporto duale ma deve agevolare l’allontanamento e il contatto con le altre realtà relazionali offrendo contemporaneamente certezze al figlio stesso.

Il genitore può ostacolare, sommariamente, per lacune relazionali storiche, l’autonomia del figlio tramite due modalità: l’evitamento o al contrario l’eccessiva presenza.
Il primo porterà a un vissuto del bambino che si ritrova in poco tempo a passare da un mondo unico duale, stretto, limitato e intimo a un mondo vasto, esteso, dispersivo perché il genitore lo ha lasciato andare troppo o troppo precocemente.
Il secondo tenderà a mantenere quel climax duale il più possibile e a lungo nel tempo e quando inevitabilmente il bambino dovrà confrontarsi con le autonomie concrete, scuola, rapporto con i pari e così via, avvertirà la non adeguatezza, la paura e il desiderio di ritornare il prima possibile nel rapporto duale, che sarà ormai rappresentato dal nido sicuro della casa.

Ricordiamoci che fino ai 3 anni e oltre il cervello destro è predominante e porta allo sviluppo della funzionalità dell’intero sistema nervoso grazie allo scambio affettivo, unico vero attivatore della mente, di conseguenza anche per questo motivo le dinamiche di separazione che coinvolgono maggiormente il lavoro psicoterapeutico sono quelle relative ai primi anni di vita.
Possiamo affermare che se i primi anni hanno funzionato in termini di certezza affettiva come primo anno e capacità di separazione e autonomia, come anni successivi, la fisiologia di base del bambino gli potrà permettere di sviluppare un senso di sé, di identità, adeguato ad affrontare le esperienze di vita.
Si devono escludere ragionevolmente i grossi traumi che potranno sopravvenire e che in base alla loro portata e gravità potranno incrinare l’identità del ragazzo o dell’adulto ma fortunatamente sono di solito eccezionali o molto rari poiché si parla di gravissime perdite, violenze e/o abusi importanti e situazioni specifiche che rientrano all’interno della definizione di trauma.

Solitamente invece si osserva l’inizio della psicopatologia in seguito a un evento rilevante ben diverso da quelli stravolgenti cui accennavo prima.
Mi riferisco a esperienze di vita molto potenti che ci mettono a confronto con dolori e sentimenti che sperimentiamo per la prima volta, sono difficili da affrontare e superare ma non hanno il potere di far ammalare la persona se la sua base di identità, i primi anni di vita in sintesi, ha funzionato.
Distinguiamo di nuovo la sofferenza dalla psicopatologia: soffrire, passare periodi di tristezza in seguito a esperienze dolorose è assolutamente fisiologico, si può affrontare e soprattutto dobbiamo concedere alla persona la possibilità di vivere queste emozioni e non doverle in un modo o nell’altro tamponare, arginare, elaborare.
Se un’identità di base si è strutturata, si soffre e si va avanti.

Altra situazione è invece quando il fatto diventa esso stesso un trauma se la persona non ha sviluppato un sufficiente senso di sé e allora l’evento può richiamare il senso di non autonomia legato alla dinamica di separazione con la madre, o l’angoscia della morte come rappresentazione per eccellenza del vissuto dell’assenza della madre stessa che aggiungono al fisiologico dolore per l’accaduto, la psicopatologia della propria esperienza storica, attivando così un quadro clinico.
Pertanto ritengo che gli eventi di vita sfavorevoli non si possano realmente considerare traumi, se non nel momento in cui si ripercuotono su una persona che ha delle fragilità nel senso di identità originaria e che quindi vive e affronta il fatto come traumatico innescando una psicopatologia.
Questo è dimostrato dal fatto che si possono considerare traumi, nel senso di eventi che avendo un certo livello di attivazione emotiva la persona non riesce a gestire, anche quelli a qualità affettiva positiva, traguardi lavorativi, di coppia, figli e altro che sono eventi favorevoli ma nella realtà richiedono una capacità di messa in gioco che può determinare conseguenze psicopatologiche ugualmente importanti così come quelle a qualità negativa se non c’è un sé integro alla base.

Credo che sia sufficientemente comprensibile il motivo per cui ritengo che il lavoro di psicoterapia individuale sia centrato sulla rielaborazione dei primi anni di vita, in particolar modo utilizzando i sogni per comprendere il periodo più antico dell’esistenza, il primo anno di vita, e i sogni stessi e la relazione per la fase di autonomia/svezzamento.
Il rapporto duale riesplora la relazione con la madre con l’emergere primariamente delle dinamiche inconsce rappresentate dalle immagini dei sogni e le costruzioni difensive che si affrontano sono fondamentalmente due: l’identificazione e l’annullamento (assenza di rapporto) di cui ho scritto altrove.
La psicoterapia individuale ripropone la fisiologia di rapporto dei primi anni di vita e nel momento in cui inizia l’elaborazione della fase di separazione, quindi il rapporto con gli altri, il sociale inizia a essere un contenuto emergente e di interesse della relazione psicoterapeutica.

Per sociale si intende quel periodo in cui il bambino, dopo aver scoperto una possibilità altra rispetto al rapporto madre/duale, inizia a interagire con i pari, incontra altri esseri umani che gli permettono di ampliare la sua percezione del mondo che si allarga sempre di più come spazi, persone e altrettanti vissuti emotivi importanti.
In questo processo il paziente comincia a uscire dall’accentramento su sé e a poter pensare, sognare e occuparsi delle qualità delle relazioni che ha intorno, che costruito ma soprattutto che può cercare e desiderare, uscendo dalla fase imperniata sui propri malesseri, sintomi e disagi.
Inizia così un lavoro sulle autonomie e la definizione di identità, più avanzato e complesso rispetto al precedente.

Complesso non perché difficile ma perché ingloba la vera e propria messa in discussione e ricerca verso gli altri, che comprende l’ambito affettivo strettamente personale, i rapporti di coppia e le amicizie, ma anche tutta la sfera delle possibili realizzazioni sul campo da quelle lavorative agli interessi e passioni da riscoprire o conoscere ex novo.
Tutto questo è riscontrabile nelle immagini dei sogni ma diventa evidente anche nella relazione, nelle forme di pensiero e nella formulazione di idee e concetti, la rappresentazione di sé comincia a coincidere con un’identità rafforzata e la coerenza tra i vissuti, i pensieri ad essi associati e le azioni acquisisce fluidità.
Inizio a proporre allora il lavoro di gruppo come fase psicoterapeutica importante e necessaria per ciò che si sta affrontando e come rinforzo dell’uscita dalla centralità del sé, mantenendo il rapporto duale, pertanto l’inizio della psicoterapia combinata individuale/gruppo.

Michele Battuello