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Per un linguaggio comune della Psicoterapia: il Setting Primario

In riferimento alla necessità e desiderio di trovare un linguaggio comune per chi si occupa di psicoterapia, un aspetto interessante da trattare è il setting.
L’oggetto in questione, l’organizzazione della seduta, è un oggetto che corrisponde all’immagine interna dell’essere umano e poi professionista psicoterapeuta che è realmente in contatto con se stesso e con la sua possibilità relazionale.
Pertanto è necessario che anche il setting risponda primariamente a una modalità relazionale di base che è comune a tutti gli esseri umani e che deve tenere in considerazione aspetti come lo spazio e il tempo che abbiamo a disposizione, il numero effettivo di pazienti che possiamo seguire, le condizioni economiche e la precisione nel mantenere tutto questo non in risposta a una regola ma a un rapporto adeguato alla realtà della relazione umana.
Anche nell’organizzazione del nostro tempo e spazio lavorativo dovremmo rispondere a una fisiologia di base unica per poi poter impiantare con solidità, certezza e identità, il nostro lavoro specifico.
La mia gestione del setting primario che considero come il pensiero sulle possibilità e modalità di rapporto concreto con il paziente, si sintetizza con la presenza al giorno e ora dell’appuntamento, seduta che ha una tariffa concordata e che ha delle interruzioni previste due volte l’anno in occasione della pausa estiva e invernale e la comunicazione che la seduta saltata non deve essere pagata.
Non le definisco regole ma un accordo di convenienza necessaria per far sì che due persone possano incontrarsi con costanza, lo stesso vale per il gruppo.
Dovremmo pensare molto di più a come siamo organizzati, impostati e strutturati noi stessi prima di pretendere dal paziente di attenersi a delle regole come descriverò più avanti.

Se lo psicoterapeuta offre un’immagine integra, definita, coerente di sé, che comprenda la precisione come atto affettivo rispetto al rapporto con l’altro e non come regola, è sempre meno probabile che la relazione possa essere inficiata da violazioni che siano effettive manovre difensive o di fuga.
Purtroppo si scrive in prevalenza di ciò che il paziente non fa bene, o sbaglia, con forti accezioni di giudizio su dati di realtà che rinforzano un messaggio ambivalente di seduta libera ma non veramente tale nella sua impostazione metodologica.
Mi viene spontaneo mantenere una precisione strettamente legata alla rilevanza che do al rapporto in quel giorno e in quell’ora.
Pertanto il professionista non deve fare fatica o obbligarsi a una regola con i suoi pazienti ma senza pensarci più di tanto c’è punto e basta.
Il presupposto da cui parto è di un rapporto libero e la libertà dello psicoterapeuta è rappresentata proprio dal suo essere genuinamente preciso, puntuale e soprattutto presente perché sintonizzato con la fisiologia della relazione.
Tutto questo risponde alla mia scelta di curare con la relazione e non a una coercizione metodologica.

Un presupposto importante dovrebbe essere la consapevolezza dello psicoterapeuta prima di tutto della propria vita personale.
Aspetto che non è spesso effettivamente valutato.
Nel momento in cui lo psicoterapeuta prende in carico delle persone deve avere in mente quali e quante garanzie può permettersi rispetto alla gestione della sua vita.
È chiaro che in corso d’opera posso verificarsi eventi eccezionali o problematiche subentranti non previste che vanno gestite nel qui e ora ma il partire all’origine con un’immagine di ciò che ci si può permettere garantisce una relazione psicoterapeutica con presupposti di efficacia.
Ritornando alla concretezza io mi domando cosa e quanto sono in grado di fare che corrisponde al desiderio libero di curare dei pazienti per i quali sento di poter sinceramente dedicare del tempo che so di avere a disposizione come frequenza e regolarità.
In questo caso la quantità contiene la qualità proprio nella gestione degli aspetti formali della psicoterapia che sono intrisi di contenuto relazionale.

Un’altra questione è quella che riguarda l’ambito economico perché, seguendo il principio di coerenza a sua volta collegato alla vera ed effettiva disponibilità dello psicoterapeuta al lavoro come descritto, spesso potrebbe accadere che seguiamo un numero di persone che però non è sufficiente a darci quella risposta economica che cerchiamo come adeguata al lavoro che svolgiamo.
Allo stesso tempo negli ultimi anni e in molte realtà come i grandi centri urbani, la psicoterapia è diventata un mercato imprenditoriale: c’è molta offerta, la richiesta varia in base alle condizioni socio economiche e alle zone di provenienza del paziente, quindi il professionista cerca di vendere il suo prodotto.
È sufficiente farsi un giro sui motori di ricerca per trovare annunci di ogni tipo associati a pacchetti promozionali e a cifre proposte per intraprendere una psicoterapia, del tutto squalificanti la professione.

Definisco squalificante nel momento in cui, oltre alla cifra che può essere una libera scelta dello psicoterapeuta, si mette in atto una concorrenza pubblicitaria per cui quella seduta costa meno di quella dei colleghi di zona o legata alla qualità del profilo internet o al posizionamento sul motore di ricerca.
Alla luce del mercato della psicoterapia e della conseguente svalutazione della professione, penso sia intuitivo darsi la possibilità di sottrarsi alla competizione “alto numero di pazienti e cifre sempre più basse”, e concentrarsi su minori possibilità numeriche ma coerentemente retribuite.
Sostengo tutti questi principii con enfasi poiché, se trascurati, hanno un effetto all’interno del setting: nel caso della remunerazione la più chiara conseguenza è dal lato dello psicoterapeuta che si ritrova nel vortice commerciale e vive la rabbia e la frustrazione del ribasso continuo.
Sempre dal lato del professionista subentra ancora, una risposta concreta e razionale a una legge che in questo caso è di mercato e della competizione, che nulla a che fare con il nostro lavoro.

Dal lato del paziente infine, laddove concretamente può essere contento di potersi permettere un lavoro psicoterapeutico a buon prezzo, dall’altro è molto probabile che risponda prima o poi nella relazione con la svalutazione del rapporto se percepisce indirettamente lo psicoterapeuta frustrato.
A maggior ragione lo psicoterapeuta deve essere libero da qualsiasi forma di insofferenza dovuta alle questioni economiche per la cura e la tutela della relazione.
Ritorno pertanto al discorso precedente sulla necessità del professionista di avere molto chiare le sue esigenze, anche economiche per poter accedere in maniera pulita e coerente, alla cura del paziente.
È naturale che si possano attraversare delle difficoltà all’inizio della professione ma anche durante: psicoterapie che terminano, pazienti che si trasferiscono e periodi di diminuzione di prime visite.

La fatica, anche economico-finanziaria, non può invischiare lo psicoterapeuta nel circolo vizioso svalutativo del reclutamento ossessivo e del compromesso sulla tariffa pur di avere nuovi pazienti perché il prezzo vero in termini relazionali lo scontano il paziente e l’alleanza psicoterapeutica.
Date queste premesse sullo psicoterapeuta, ritengo che il paziente sia libero di muoversi come crede e le cosiddette violazioni del setting, parola utilizzata nel gergo professionale ma che non mi appartiene se pensata a priori su dati formali, vengono in caso affrontate durante il percorso psicoterapeutico.
Sottolineo il fatto che “in caso” entrano nella seduta, perché non necessariamente succede in quanto ritengo che un dato coerente con la realtà, includa anche la consapevolezza che il paziente possa essere qualche volta in ritardo o assente, per citare le situazioni più frequenti nell’esperienza clinica.
Avvalendomi dell’utilizzo del sogno come strumento di lavoro psicoterapeutico, gli elementi che con certezza danno conferma che i movimenti del paziente rispetto agli accordi corrispondano a negazioni, crisi, resistenze o altro, emergono prima o poi dal contenuto onirico e/o relazionale.

Penso che, quando non abbiamo un’evidenza tangibile di dinamiche in atto contro il rapporto psicoterapeutico, evidenziate non solo dai fatti ma anche da intuizioni durante la seduta, inserire osservazioni, puntualizzazioni in materia di eventuali violazioni del setting, risulterebbe una critica o quantomeno un giudizio non comprensibile dal paziente stesso all’interno di un lavoro che gli viene proposto come spazio e tempo di libertà.
Se tali riferimenti coscienti entrassero nel rapporto come prassi e non motivati da una chiara evidenza di conflitto rispetto al lavoro psicoterapeutico assumerebbero il contenuto di esplicitazioni di fastidio e irritazioni personali da cui lo psicoterapeuta deve essere esente.
L’esperienza, nella maggior parte dei casi, dimostra che le trasgressioni agite sugli aspetti formali della relazione, come le assenze o i ritardi, sono legate ad aspetti reali e concreti dovute ai numerosi impegni di ognuno, alle difficoltà, nel mio caso, a muoversi in una grande città come Roma che rappresenta di per sé un imprevisto quotidiano con cui confrontarsi e altro non riconducibile per forza a un movimento inconscio del paziente.

Il paziente ci tiene alla sua seduta e al nostro rapporto: al contrario ho rilevato meno frequenti le violazioni correlate alle difficoltà dinamiche e comunque le ho affrontate sempre e solo quando sono emerse all’interno della relazione psicoterapeutica o da immagini oniriche.
Sono convinto che il mio approccio all’argomento possa sottostimare alcuni casi ma preferisco questo rischio relativo piuttosto che rimandare al paziente una riflessione sulle regole non rispettate, proprio perché considero la seduta, come spero tutti i colleghi, uno spazio e un tempo concretamente libero da condizionamenti esterni, concreti e soprattutto da critiche e giudizio.
La psicoterapia è un impegno importante che il paziente prende con se stesso e pertanto anche con il professionista e già la presenza settimanale, il pagamento e tutto il resto sono indici di serietà formale ma soprattutto personale del paziente stesso.
Non condivido gli approcci che insistono sulla centralità assoluta, quasi dogmatica o religiosa, del lavoro psicoterapeutico perché assegnano potere alla seduta e quindi sono vincolati all’ideologia e alla regola.

Per questo rimando e interpreto la mancanza di adesione al setting solo nei casi descritti, che cioè fanno emergere con chiarezza una difficoltà nello stare nel tempo e nello spazio, per evitare il messaggio di obbligo, regola, legge.
Qualche volta può risultare facile agli psicoterapeuti, per abitudine, dimenticare che quando una persona, negli impegni del quotidiano, negli ostacoli esterni anche solo organizzativi, insieme al malessere, si prende l’impegno di lavorare in psicoterapia, sta già facendo un grande atto di fiducia verso se stesso e verso l’altro perché ha la consapevolezza che sono 1-2 incontri a settimana per numerosi mesi, se non anni, e con una spesa economica totale non indifferente.
L’aprioristica interpretazione della violazione della regola è per me difficile da condividere per il semplice motivo che è un giudizio razionale che si stacca dal dato di realtà.

Si ricrea una forte dicotomia che preferirei sempre chiamare incoerenza da prendere in considerazione: si cerca di abbattere la regola con una nuova regola camuffata da spazio protetto in cui lo psicoterapeuta racconta che c’è la libertà di sospendere il rapporto con il mondo esterno e affrontare se stessi e le proprie difficoltà.
Dal lato opposto, proporre un’impostazione più morbida, se vogliamo chiamarla così, espone il paziente alla difficoltà di trovare nello spazio psicoterapeutico un momento di ordine e linearità rispetto alla sua confusione, a maggior ragione quando, seguendo tale linea di pensiero, lo psicoterapeuta si propone in maniera altrettanto comoda, spostando sedute con frequenza e tante altre intromissioni non concordate nel setting.
Rispetto al caso opposto, sembra complicato immaginare come poi, durante il percorso di lavoro, sia possibile interpretare o rimandare al paziente osservazioni su una sua eccessiva confusione organizzativa, mentale e/o affettiva, come spesso accade, ricreando così proposizioni incoerenti.
Per evitare tutto questo ritorno alla necessità di parlare una lingua comune nel nostro lavoro che è l’identità dello psicoterapeuta.
Pertanto lo psicoterapeuta deve prima ritrovare quella forma originaria sana in sé e poi può occuparsi della professione.

La ricerca sull’identità del professionista dovrebbe essere prassi comune e basarsi su questi principii condivisi sulla natura umana e, solo in seguito, possono comparire le riflessioni sulle caratteristiche uniche del singolo psicoterapeuta e sui riferimenti teorici, metodologie e orientamenti.
Solitamente l’approccio psicoterapeutico specifico, è il punto zero della ricerca sullo psicoterapeuta, trascurando il vero “prima” che invece è fondamentale e universale, la sua identità di base: si creano così incoerenze e contraddizioni di percorso facilmente rilevabili.
Diventa intuitiva la centralità che deve essere data alla formazione in termini di recupero della fisiologia della persona-psicoterapeuta, pertanto del suo Potenziale Umano specie specifico che l’uomo e poi professionista ha messo in gioco come tutti i bambini fin dal primo momento di vita extra uterina.

Michele Battuello