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Passaggi sulla Diversità e l’Uguaglianza in Psicoterapia e nella Cultura Psicoterapeutica


L’Uguaglianza è una condizione innata nel nostro codice genetico, che ereditiamo alla nascita: siamo tutti uguali come esseri umani e con le stesse capacità affettive verso il mondo esterno, necessarie allo sviluppo psico-fisico.

Le diverse e limitate possibilità del bambino e del futuro adulto sono unicamente, spesso purtroppo gravi e invalidanti, di natura organica dovute ad alterazioni intrinseche o estrinseche del patrimonio genetico, sofferenze fetali intrauterine o connesse al parto.

Da qui dobbiamo partire per pensare l’umano per la responsabilità verso la cura dei pazienti, la Psicoterapia, e anche per l’impatto che ha la Cultura Psicoterapeutica che si contamina sempre più con l’Antropologia, la Sociologia, la Filosofia e le Scienze Umane in toto.

La Psicoterapia è interventistica, subentra nella vita delle persone quando c’è la sofferenza e parliamo di pazienti proprio per questo motivo: il cliente, come parte della Cultura Psicoterapeutica lo vuole chiamare, sceglie, il paziente no, il dolore obbliga a prendere decisioni e a curarsi, si è pazienti a tutti gli effetti in quel momento, molto difficile parlare di clienti.

La Psicoterapia integra altresì nella cura il pensiero sull’essere umano, un messaggio implicito nella relazione psicoterapeutica di come è visto, letto, interpretato il paziente a partire dalle fondamenta della sua esistenza, cioè dalla nascita.

In questo modo la Psicoterapia è anche Cultura Psicoterapeutica, come integrazione ma mai sostituzione della cura che è l’obiettivo cardine dell’alleanza psicoterapeutica: tale Cultura ha prodotto teorie, scritti, incontri, società e un intero sistema istituzionale che da più di un secolo impatta con forza sul pensiero umano culturale, non solo nell’ambito della Salute Mentale.

È una conseguenza naturale della Psicoterapia stessa, per le implicazioni del lavoro relazionale, coinvolgere anche il pensiero cosciente, le idee e gli aspetti cognitivi dell’interazione tra esseri umani, come conseguenza del cambiamento del rapporto del paziente con se stesso e con il mondo.

Lo Psicoterapeuta ha la responsabilità del pensiero che incarna sull’essere umano perché, nella spontaneità dell’alleanza psicoterapeutica, questo messaggio passa, direttamente o indirettamente ai pazienti e, come detto, è una responsabilità legata agli effetti diretti sulla cura della persona e più ampi alla diffusione di un pensiero che, attraverso gli ex pazienti, gli scritti, le docenze, gli interventi etc. coinvolge la società, influenzandola.

L’efficacia interventistica della Psicoterapia è pertanto imprescindibilmente stretta all’integrazione corpo-mente dello Psicoterapeuta in merito all’essere umano: un pensiero cosciente ma conseguenza del sentire, dell’intuire, dell’investimento affettivo genuino sull’altro che coinvolge il lasciarsi andare alla relazione ritrovando la fisiologia dei primi mesi di vita, il non preconcetto razionale sulla persona, il non dover capire.

L’esperienza della relazione in Psicoterapia, che a ritroso, racconta il là e allora del singolo paziente che, esteso ai numerosi pazienti, descrive, tramite le tracce inconsce principalmente dei sogni, la fisiologia di ognuno di noi dalla nascita, permette di costruire un pensiero a posteriori sull’essere umano.

L’intervento psicoterapeutico pertanto mette in luce da decenni la nostra pasta originaria, di cosa siamo fatti, della non esistenza a priori della malattia mentale se la persona-psicoterapeuta non è condizionata, nella sua storia privata e professionale, dal pensiero cosciente preconfezionato e non risolto nel percorso di Psicoterapia intrapreso prima della professione.

Perché in direzione opposta e contraria, anche la Cultura influenza il pensiero psicoterapeutico, il condizionamento politico, filosofico, religioso, medico di ogni epoca ha fatto spesso breccia nella Cultura Psicoterapeutica, condizionandone l’approccio al paziente nelle sedute: quando questo avviene, la cura è a rischio così come più diffusamente il pensiero sociale sull’umano.

Il principale pregiudizio che critico e contrasto è sull’origine della malattia mentale, causa di approcci psicoterapeutici e/o farmacologici che anche se possono portare dei benefici sono sempre parziali o precari perché sottendono il fallimento dell’essere umano nel momento in cui la malattia è parte integrante di sé.

Trascorrono così decenni interi di relazioni di non cura, perché si tratta di supporto e consolazione, diffusi come modelli operativi per il trattamento del disagio psichico, associati al pensare, senza vedere veramente, la persona come identificata con la malattia.

Decenni di psicofarmacologia e interventi psicoterapeutici per registrare che le malattie mentali continuano ad aumentare statisticamente e come giustificazione la Cultura Psicoterapeutica e Psichiatrica così orientate, continuano ad accusare una società sempre più ammalata, mai prendendo in considerazione che, forse, il loro punto di vista originario potrebbe essere incoerente con la realtà umana e potrebbe essere generativo di parte della malattia sociale stessa.

Il gravissimo errore culturale di credere che alla nascita non siamo tutti uguali ma qualcuno, psichicamente, emotivamente, affettivamente, qualunque sia il sinonimo, è un po’ diverso, in meglio o in peggio, mantiene la dicotomia dei buoni e cattivi, dei primi e degli ultimi, del bene e del male, risposta cognitiva della società a un pensiero sull’uomo ma non per questo coerente con la realtà umana sottostante.

La psicopatologia nasce dalla relazione e non dall’individuo e come si ammala la persona/paziente per la relazione che non risponde, così, diffusamente si può ammalare anche la società, la differenza fondamentale è che il singolo paziente è intercettabile, la società si impregna di quel messaggio, ci si identifica e lo incarna, difendendolo.

La responsabilità della Psicoterapia e della sua Cultura è di intuire la realtà umana oltre l’identificazione familiare e/o sociale anche quando i fattori esterni sembrano soverchiare l’ordine delle cose, come la pandemia o le guerre.

Come ho già scritto in merito al Covid, l’intervento ad ampio spettro è stato ed è fondamentale perché le conseguenze delle attivazioni emotive degli ultimi due anni hanno un impatto rilevante sulla popolazione.

L’uscita dalla pandemia e l’arrivo inatteso della guerra hanno e avranno un nuovo peso sulle risorse relazionali dell’essere umano di cui Psicoterapia e Psichiatria continueranno a occuparsi ma da anni è necessario integrare l’effetto dei fatti sullo stato della persona, società, identità culturale, paese, nazione.

Il Covid ha sfiancato psicologicamente ad ampio spettro migliaia di persone ma in parallelo da psicoterapeuta so, perché vedo la clinica ogni giorno, che una parte della sofferenza è inestricabilmente vincolata al pensiero che ha la persona su se stessa o l’esterno su di essa. Se la psicopatologia è costituzionale, è chiaro che ben prima del Covid esistevano migliaia di persone che credevano che il loro problema o il problema dei loro cari fosse un qualcosa di irrisolvibile con cui convivere al meglio tramite il sostegno esterno: un pensiero del genere, amplificato negli anni, che inquina la Cultura, struttura un essere umano fallimentare perché carente e difettoso in origine.

L’arrivo del Covid  come di altre contingenze esterne rilevanti ha due conseguenze principali e la prima è la più intuitiva perché l’uomo, mortificato da un pensiero a priori, reagisce con meno risorse all’evento e la seconda è che c’è già la Cultura dell’assistenza, pronta subito a comunicare un messaggio di fallimento, con la previsione immediatamente catastrofica del dilagare della psicopatologia e con la conseguenza inevitabile della suggestione che si identifica con il fallimento delle risorse e l’arrivo della malattia.

Se la Cultura Psicoterapeutica, prima ancora dell’evento traumatizzante, aprisse gli occhi alla realtà umana, privandosi della visione cosciente che afferma il sintomo all’interno della categoria diagnostica, che organizza un trattamento per l’oggetto malattia, che non ha tempo di dare tempo alla persona ma deve trovare soluzioni rapide ma superficiali, dimostreremmo che siamo più in grado di affrontare le difficoltà di quanto alla fine pensiamo o ci viene fatto pensare.

Il fronteggiare l’impatto psicosociale dei grandi eventi ha una forte rappresentazione nel ritrovare il Noi, come possibilità di relazione con l’altro, il diverso, da cui sembriamo dover sempre fuggire perché persi nell’arroccamento dell’Io e di una Cultura dell’individualismo che nel proporre la superficialità dell’autonomia come forza, espande la paura del confronto con il mondo esterno.

La parte della Cultura Psicoterapeutica che proclama il potere del Sé, da anni continua a sostenere implicitamente, un essere umano che, se difettoso all’origine e quindi debole, può trovare la forza facendo leva su risorse che servono a non sentirsi diverso in mezzo agli altri, stravolgendo del tutto il contenuto delle relazioni.

Si ritrova originariamente diverso e deve lottare per sentirsi uguale, e dove in caso ci riuscisse, si confronta solo con la certezza degli uguali perché il diverso risuona fallimento e paura e così la persona, ma poi la società si ripiega su se stessa perdendo i significati relazionali alla base dell’esistenza.

La Cultura Psicoterapeutica deve riconoscere invece l’uguaglianza originaria che permette la crescita del bambino ma anche della Cultura e della società, come desiderio di confronto con o di rappresentazione della diversità, non più minaccia identitaria.

Un’altra rappresentazione della cecità contemporanea sugli aspetti fondamentali della fisiologia umana che descrivevo è la proposta utopica come appoggio astratto di speranza, disconnesso dalla realtà proposta da alcune menti, filosofiche, psicologiche, psichiatriche o sociali.

Nel momento in cui l’avversità è in corso scatta la riflessione sulla domanda cosmica sulla rinascita dalle ceneri: saremo uomini e donne migliori? O in forme più assertive la dichiarazione di certezza che il dopo ci troverà uniti, protesi in avanti, resilienti, empatici e tanti altri sinonimi incoraggianti.

Tutto questo è e può essere non per fantasticheria di buonismo ma al contrario per eliminazione di una rappresentazione dell’essere umano come ho ampiamente descritto che altrimenti e non a caso, se parte dal male originario non può provare altro che a credere bene supremo dell’utopia.

Il Centro di Psicoterapia di Roma, a prescindere dai modelli di cura applicati, ritrova un pensiero comune dei colleghi sulla sanità delle persone alla nascita e sull’origine esterna/relazionale della psicopatologia e le proposte di Cura, Formazione e Ricerca incarnano profondamente e senza alcun dubbio, questo approccio alla realtà umana e alla relazione psicoterapeutica.

 

Michele Battuello