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La Ricerca in Psicoterapia come Narrazione connotata da Emozioni

La lettura di un testo che racconta alcuni passaggi del processo psicoterapeutico, le risposte del paziente, le attivazioni dello psicoterapeuta, i confronti con le colleghe, il clima percepito all’interno del setting e quanto rientri nella narrazione di eventi che avendo a che fare con la relazione, sono carichi emotivamente, è, a mio parere quanto di più possibilmente vicino a ciò che si possa chiamare Ricerca in Psicoterapia.

Quello che ha emozionato l’autore/psicoterapeuta incontra le emozioni del lettore che possono essere discordanti o meno: se il lettore è un altro psicoterapeuta, l’effetto che la narrazione clinica e rielaborativa determina, rientra nella Ricerca.

La lettura invece di una serie di risultati che cercano di accorpare, riassumere, numerare, analizzare sinteticamente e sistematicamente aspetti della relazione umana all’interno e all’esterno del setting, è difficile che generi emozioni, pertanto non è Ricerca in Psicoterapia. È sicuramente un tipo di Ricerca Scientifica come quella medico/organica che non deve contattare nessuna specifica emozione, anzi deve permettere un’oggettiva e distaccata lettura di dati per definire, ad esempio, le percentuali di complicanze di una determinata infezione, gli effetti collaterali di un farmaco e tanto altro.

I risultati devono essere emotivamente sterili per la nostra salute pertanto per la nostra vita, precisi, oggettivi e freddi perché l’obiettivo è trovare risposte applicabili per un corpo fisico che, in linea di massima, funziona analogamente tra individuo e individuo e la cura si migliora con la ripetizione di numeri e numeri di casi ed esperimenti fino a trovare rimedi statisticamente efficaci per numeri sempre più ampi di popolazione.

È difficile avvicinare questo importantissimo approccio a qualcosa che però si distacca così tanto da un tale funzionamento che è la relazione dell’essere umano con gli altri. È una caratteristica che parte comunque dal corpo, il sistema nervoso in toto, ma che attiva risposte difficilmente replicabili da persona a persona (come cosa determina che un film a me piace e a te fa orrore), chiamando in causa quella gamma di “emozioni” che sfumano ogni realtà apparentemente simile non potendola ridurre in categorie individuabili sotto specifici comuni denominatori.

Nella maggior parte dei modelli psicoterapeutici si esprime verbalmente e non un messaggio relazionale importante che vuole sottrarre la persona all’inquadramento all’interno di categorie precise, spesso fonte di giudizio o al contrario necessario a sentirsi protetti dal rischio dell’essere diversi dalla media (la cosiddetta normalità). La cura con la relazione, la psicoterapia appunto, risveglia processi emotivi originari che per sfuggire alla sofferenza si sono cristallizzati in personalità difese, chiuse nelle possibilità espressive, di amore e di vita e, con tenacia e altrettanto affetto, lo psicoterapeuta riossigena, ridando vita e luce a quella possibilità relazionale e pertanto emotiva, anche lottando e faticando insieme al paziente stesso di fronte alle resistenze al cambiamento.

Nelle sedute si attivano realmente, condensati in circa un’ora, piani diversi, da emozioni apparentemente mai provate, a nuovi pensieri vivi, al ritrovamento di capacità dimenticate, spesso passando per altrettante scoperte non piacevoli della propria vita o dovendo rientrare in contatto con momenti di estrema sofferenza.

Il cambiamento del paziente è dovuto alla relazione ed è dentro la relazione stessa, è un cambiamento inevitabile anche per lo psicoterapeuta, come ogni scambio tra esseri umani. È difficile dire “cosa” realmente lo determini, fuorché la relazione stessa e quello che succede nella relazione. Per questo rimando la mia convinzione che per fare Ricerca sia utile soprattutto la narrazione che contiene le sfumature che lo psicoterapeuta rivive nel momento della scrittura anche se non saranno mai quelle vissute con il paziente perché il tempo della scrittura avviene a relazione/incontro già ultimato e pertanto lontano dalla verità. Ma la verità assoluta non serve per certi aspetti in psicoterapia: allo stesso tempo è proprio quella risposta emotiva che il lettore coglie nell’intuizione delle parole che legge che, similmente a ciò che avviene nella seduta psicoterapeutica, apre a una riflessione irrazionale che è una porta nuova aperta sulla capacità di relazionarsi e di sentire della persona/lettore/psicoterapeuta.
Ricerca è risposta emotiva alla narrazione, è comunque una forma di relazione che quando “tocca” sta aprendo i pori affettivi e offrendo nuove possibilità allo psicoterapeuta che legge e che magari a sua volta scriverà rendendo cosciente il vissuto irrazionale, attivando altri pori e così via ampliando la Ricerca che è, nello specifico, aumento delle capacità relazionali-affettive dello psicoterapeuta e delle possibilità di risoluzione per il paziente.

È inutile dare ai numeri il potere di essere ricerca in psicoterapia perché è difficile che possano toccare alcun tasto dello psicoterapeuta che legge, se non attivare aree razionali-cognitive difficilmente efficaci nel setting con il paziente rischiando di diventare un pensiero cosciente a priori sulla persona e indirizzando la relazione su un binario prevenuto e precostituito.

La narrazione emotiva apre invece a un’intuizione non definita, non sintetizzabile in un pensiero cosciente chiaro e quindi non applicabile come prinicipio causa-effetto con il paziente. È un nucleo di fantasia toccato, aperto e disponibile per lo psicoterapeuta per un utilizzo non specifico né tantomeno specificato che prenderà forma nel rapporto con i pazienti, con alcuni, con uno o con gli affetti personali dello psicoterapeuta: non è importante saperlo o riconoscerlo perché è solo capacità relazionale aggiunta, bagaglio fondamentale per l’essere umano, tanto più per lo psicoterapeuta stesso.
Tutti quei nuclei di fantasia attivati si ritrovano clinicamente nella relazione psicoterapeutica come l’insieme dei messaggi che scambiano reciprocamente paziente e professionista e, poi, nella ricerca nel momento in cui subentra il desiderio spontaneo di narrare.

Spesso, nelle fasi conclusive del processo psicoterapeutico, il paziente può spaziare finalmente nell’esplorazione delle proprie passioni come superamento del legame ai bisogni affettivi che lo hanno imprigionato in molte espressioni della sua vitalità. Il desiderio riprende forma nella vita, nelle parole, nei sogni, nella qualità relazionale del paziente in una crescita evolutiva reciproca inevitabile con lo psicoterapeuta. La ricerca che si focalizza su numeri e risultati soffoca i vissuti del professionista stesso che inevitabilmente utilizza un linguaggio che non può esprimere questi fattori fondamentali della relazione psicoterapeutica utilizzando un linguaggio logico formale. La lettura di questo tipo di ricerca a sua volta credo che rinforzi il mettere da parte l’aspetto passionale che però è intrinseco alla professione, alimentando una dinamica circolare che si allontana dalla ricerca in psicoterapia come narrazione affettiva così come descritta.

I numeri servono in psicoterapia perché è anche importante parlare un linguaggio comune tra professionisti soprattutto nell’ambito pubblico e nella cura di grandi numeri di pazienti altrimenti si rischiano confusione e dispersione a svantaggio di chi soffre ma per parlare di ricerca è necessario avere a disposizione sempre più narrazioni.

La bibliografia è povera negli ultimi anni di narrazioni emotivamente connotate perché esiste un retro pensiero culturale che associa la parola emozione ancora a qualcosa di romantico e di conseguenza che offusca la lucidità oggettiva dello scienziato che, se si lascia andare, perde la barra del timone della cura.
È proprio quel lasciarsi andare che, nella formazione, chiediamo agli studenti, futuri professionisti, così come al paziente in psicoterapia e a noi stessi ovviamente nel lavoro e nella vita personale: quando e come avviene può essere raccontato per gli altri, facendo così Ricerca.

Michele Battuello