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La Ricerca in Psicoterapia come Narrazione – 2


La Ricerca come Narrazione è lo strumento in mano alla Psicoterapia per il riconoscimento della sua identità.

La verità da raccontare non è solo quella del paziente, che ricerca la sua nel lavoro psicoterapeutico, ma, includendo anche quella del paziente, è la Ricerca sulla Relazione.

La verità non è una sapienza assoluta e insindacabile ma la consapevolezza di quello che sono e sta accadendo ora in me e intorno a me in un processo di immersione e contatto coerente con la storia cui appartengo.

Questo “Me” è anche dello psicoterapeuta, parte imprescindibile della relazione stessa, la Ricerca pertanto narra anche la verità da questo lato della stanza, non solo e sempre dall’altro come si è scelto di fare per decenni.

Per rilevanza dello scopo, la cura delle persone, arriva prima lo psicoterapeuta del paziente, l’esperto della relazione, della sua fisiologia e della sua patologia, per costruire un rapporto in cui lo scambio sia direzionato verso la guarigione.

In questa semplice sintesi emergono due questioni: la bi-direzionalità del rapporto e il significato cura-guarigione.

Il primo punto racconta che per costruire l’alleanza psicoterapeutica, entrambi i partecipanti alla relazione, o tutti i membri, se si parla di Gruppo, sono in relazione, si attivano, uno risponde all’altro e viceversa, sottraendo così il potere relazionale allo psicoterapeuta.

La capacità di intuire, rispondere, interpretare e/o restituire significati si integra con la risposta del paziente, che attiva una risorsa per stare nella relazione stessa e questo è un riconoscimento della fisiologia della relazione, che conferma la non costituzionalità della psicopatologia in quanto sono sempre presenti aspetti affettivi che permettono di instaurare un rapporto, anche se questo in alcuni casi terminerà precocemente o comunque non darà vita a un’alleanza psicoterapeutica efficace.

La causa del drop-out è sempre legata a entrambi i poli e la Cultura Psicoterapeutica che si arrocca dietro a deduzioni e ingerenze continue sulle resistenze, le difese, le strutture di personalità dell’altro, il paziente, come causa dell’interruzione del rapporto, nega la realtà umana espressa dalla relazione: anche la persona che ha una storia alle spalle che può motivare la difficoltà a stare in un rapporto, risponde sempre a un numero ristretto di esperienze interpersonali, compresa quella psicoterapeutica, in cui non ha trovato le risposte, o il modo o l’intuizione in grado di dargli fiducia, così come può incontrare nello psicoterapeuta la risposta e fuggirne ma sempre considerando un’ottica a doppia freccia, mai unidirezionale.

Il processo di avvicinamento alla verità parte, ad esempio nel racconto che sto scrivendo, dal distinguere questa realtà – il rapporto umano sullo stesso piano – per evidenza tangibile che parte dall’esperienza clinica e risale ai vissuti personali passati e che vede la presenza dell’Altro imprescindibile dalla vita stessa, da una visione che professa invece la centralità dell’io e pertanto dello Psicoterapeuta.

Se il pensiero è infatti agganciato all’individualismo accade quello che la Cultura contemporanea, compresa parte della Psicoterapia continua a proporre e nel setting si incontrano (o forse scontrano) l’Io del professionista che entra in relazione con l’io del paziente, dove maiuscolo e minuscolo evidenziano le differenze di ipertrofia, attribuendo ruoli distinti in partenza: la relazione psicoterapeutica, anche nei suoi profili di efficacia, si impone come uno specchio in cui il paziente “prende” capacità, punti di vista, stimoli, per rendere più espanso il suo io minuscolo.

La Psicoterapia così impostata si adegua ai tempi rinforzando l’individualismo e la ricerca del benessere del singolo e non della collettività e mantiene i ruoli come condizione umana a priori e non come naturale conseguenza della relazione paritaria, si allontana dalla fisiologia della relazione e di conseguenza deve mantenere la patologia come condizione intrinseca alla persona.

Non possiamo non essere in relazione con il mondo esterno e, anche la persona che si è chiusa nelle forme più gravi in se stessa, non si aliena mai completamente perché è in relazione con il mondo, tramite un linguaggio spesso criptico, a confermare che cerca comunque una risposta e quel filo comunicativo è la risorsa e può essere utilizzata.

Lo psicoterapeuta deve riconoscere questo come conferma della realtà dell’essere in relazione, e portarlo nel setting come premessa di uguaglianza delle persone che si incontrano sul piano umano per stare, immediatamente dopo, nei ruoli, medico-paziente, che non esplicitano diverse gestioni di potere, ma obiettivi distinti, la cura di uno da parte dell’altro, tramite la relazione.

Il ruolo è secondario quindi alle diverse intenzioni dei partecipanti, lo psicoterapeuta rivolto al paziente per risolvere la psicopatologia, il paziente allo psicoterapeuta per risolvere la sofferenza, entrambi però con una richiesta di relazione pertanto, ripeto, paritari sul piano umano.

Questo significato dei ruoli così diverso dall’esperienza cosciente del ruolo come gestione di potere, implicito anche in tanti approcci psicoterapeutici, permette un passaggio spontaneo alla seconda questione iniziale sul binomio guarigione-cura.

La possibilità data alla relazione di costruirsi come alleanza psicoterapeutica che ha come principio il rapporto psicoterapeuta-paziente sullo stesso piano come basato sul riconoscimento della realtà umana che si incontra e che solo così evidenzia i ruoli come secondari a obiettivi e intenzioni differenti della relazione, include il significato del termine paziente, malattia e cura come tutt’altro che attribuzione categoriale né tantomeno di giudizio e distanza dall’altro.

La malattia, anche quella mentale severa, è sempre una sofferenza delle relazioni, e curarla è ridare dignità alla persona e ai suoi rapporti: chiamarla malattia riconosce una possibilità di cura se non si pensa che il problema sia implicito e costituzionale nell’individuo, e così sottrare il paziente all’identificazione con il suo problema permettendogli invece di vederlo come è in realtà, seppur grave, sempre e comunque un’espressione parziale di sé e mai un tutto.

Il pensiero finalizzato al rinforzo dell’individualismo prosegue invece il suo allontanamento dalla verità sulla fisiologia della relazione perché maschera il pensiero dell’Altro, il paziente, come carente nella sua costituzione, offrendogli lo specchio per le allodole, della censura delle parole come malattia, paziente, malattia mentale, professando una finta uguaglianza ma che nell’espressione relazionale è disconfermata da ruoli precostituiti, dalla necessità di infondere un pensiero individualistico “forte” che si sostiene solo e soltanto su Io, Io e ancora Io, da nutrire con l’Io dello psicoterapeuta.

Invece la distinzione di ruoli in Psicoterapia, scardina alcune non-verità sulla relazione come il principio di non malattia: se non c’è malattia la relazione psicoterapeutica non ha intenzioni e obiettivi specifici e se non cura è uno scambio paritario di significati tra i due partecipanti e non può prendere né il nome, né la forma della Psicoterapia ma è un rapporto tra due o più persone che si scambiamo mutualmente.

Se non esiste la verità della Fisiologia della Relazione che quando si altera in alcuni aspetti, sempre a causa o come conseguenza della relazione con gli altri, diviene Patologia, non c’è necessità di una Psico-Terapia, pertanto perché un setting così preciso, che include anche il pagamento da parte di uno solo dei partecipanti? Questa è l’incoerenza del pensiero sulla non malattia.

La Cultura Psicoterapeutica risponde alla società della negazione con altrettante negazioni: dove c’è una fuga a tutti i costi dal dolore legata alla cultura del benessere che è solo rinforzo dell’individualismo c’è una Psicoterapia che non vuole nemmeno sentire parlare di malattia ma che, togliendo dei nomi, cerca di rendere l’altro uguale a un modello ideale di Io che va perseguito nella figura dello Psicoterapeuta.

Dove c’è un sostegno alla diagnosi, si mantiene lo stesso approccio alla persona condizionato da due realtà umane differenti che si confrontano in cui però la differenza è tra patologico costituzionale ­– il paziente – e sano – lo psicoterapeuta ­– realtà immutabili  per cui il paziente può solo usufruire della relazione psicoterapeutica come sostegno.

La Ricerca in Psicoterapia come Narrazione, affronta, vede e legge a partire dalla realtà umana dello psicoterapeuta e dal suo posizionamento nella relazione psicoterapeutica, come dicevo prima, partendo dalla verità e dalla ricerca di coerenza della figura del professionista nel suo posizionarsi di fronte all’altro.

Questo mi riconduce immediatamente alla Formazione che è il primo tassello della Psicoterapia e credo che entrambe, Ricerca e Formazione, negli ultimi anni narrino poco la realtà umana, pur se le produzioni scritte continuano a essere innumerevoli così come i programmi formativi.

I Risultati di cui parlavo https://www.mbpsicoterapia.it/la-ricerca-in-psicoterapia-come-narrazione/ sono uno dei temi conduttori del voler dare numeri alla parola, con dei numeri che vogliono essere spacciati per qualitativi e non solo quantitativi, con il fine di trovare un’appartenenza alla, ma soprattutto una risposta dalla Scienza.

La narrazione come Ricerca per me parte da alcune caratteristiche specifiche che lo Psicoterapeuta deve prendere in considerazione.

Il racconto per parlare della relazione, deve nascere dalla separazione dalla relazione stessa, in questo caso psicoterapeutica: lo psicoterapeuta deve avere esperienza dei significati profondi della separazione come realtà umana legata al cambiamento e alla crescita che vive con il paziente nel processo di cura.

In  questo modo, così come per il paziente, anche lo psicoterapeuta, può entrare in contatto con i contenuti della relazione una volta che ha ritrovato una sua capacità di separazione.

La narrazione prende il senso di Ricerca perché è emersione spontanea, di immagini e pensieri del rapporto psicoterapeutico, in seguito alla separazione dal paziente, e quindi è identità dello psicoterapeuta stesso.

Identità come scritto tante volte, non è individualismo ma separazione da dinamiche altre che possano essere inconsciamente proiettate sulla relazione psicoterapeutica, per eccellenza le identificazioni e le associate risposte ai bisogni https://www.mbpsicoterapia.it/differenze-tra-autonomia-e-individualismo-dello-psicoterapeuta/ .

In questo modo si attiva un altro cardine della Ricerca in Psicoterapia come Narrazione: il non inseguire significati distanti dalla conoscenza della Fisiologia della Relazione come riconoscimenti istituzionali – le Scienze empiriche ad esempio – per dare un’identità alla Psicoterapia, che portano alla scelta e all’utilizzo di un approccio che non è coerente con la realtà della relazione.

Sono certo che già solo seguire queste tracce permette allo Psicoterapeuta di narrare la relazione con un riconoscimento e un’intuizione della realtà umana che si incontrerebbe con altrettanti racconti di colleghe e colleghi che insieme narrerebbero la Psicoterapia nella sua essenza.

Le differenti, tendenti all’infinito, sfumature delle narrazioni su tanti e tanti rapporti psicoterapeuta-paziente, avrebbero sicuramente un denominatore comune rappresentato dalla fisiologia della relazione che accrescerebbe la conoscenza e la descrizione dell’essere in rapporto con il mondo dell’essere umano, punto focale della Ricerca.

La validazione nascerebbe come naturale conseguenza del cammino comune della Ricerca e dell’emergere di un pensiero che vuole avvicinarsi alla verità dell’essere in relazione nel suo funzionamento spontaneo e nelle alterazioni che hanno determinato l’insorgere della patologia.


Michele Battuello