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La Cultura Psicoterapeutica che guarda con un occhio solo

La Psicoterapia sta realmente andando avanti nella cura delle persone o forse si sta irrigidendo un’ambivalenza culturale per cui i progressi nella conoscenza non vanno di pari passo con l’intuizione e il riconoscimento della realtà umana indispensabili per il processo di cura?

La comunicazione continua e unidirezionale, per esempio, sugli effetti psicologici a breve e medio termine del Covid sulla popolazione, non propone mai una riflessione su come e quanto fosse efficace la Psicoterapia prima dell’arrivo dell’infezione.

L’analisi delle conseguenze di un evento di così forte impatto sulla collettività e sulla capacità di affrontare i cambiamenti obbligati, i disagi e le manifeste sofferenze, deve necessariamente tenere anche conto di come le persone arrivavano all’impatto con l’evento inatteso e sconquassante https://www.mbpsicoterapia.it/sulla-cultura-psicoterapeutica-al-tempo-del-covid-19/ .

Ancora una volta l’occhio è uno solo, manca la visione completa e bilaterale: il focus è la pandemia e quello che ha generato e sta determinando sulla salute mentale https://www.mbpsicoterapia.it/la-fragilita-del-presente-se-non-si-appartiene-al-passato-in-psicoterapia-e-nella-cultura-contemporanea/ .

Ancora una volta perché si confronta con la stessa visione monoculare che negli ultimi decenni coinvolge un’ampia parte dei trattamenti psicoterapeutici e psichiatrici: l’oggetto da ricercare, il colpevole rappresentato da “quella” specifica patologia (la diagnosi) insieme spesso a “quel” determinato evento (il fattore traumatico).

Tutto ruota intorno a un esterno che mette in secondo piano l’interno che per me è la realtà umana in toto di “quella” persona.

Subito nasce la contraddizione, insieme all’ambivalenza, perché la maggior parte degli approcci alla relazione, mi riferisco alle Psicoterapie, sostiene esattamente, e anche meglio di me dal punto di vista teorico, questa semplice affermazione.

So quindi che sto scrivendo un ovvio ma in sostanza non lo è per nulla poiché la Psicoterapia centrata sulla diagnosi esiste, la Psicofarmacologia che tratta quella diagnosi è sempre più diffusa, l’integrazione organico-psichica (farmaco più psicoterapia) segue inesorabilmente questo processo che tiene aperto solo un occhio sul paziente e a mio avviso rischia di diventare l’opposto dei suoi intenti originari, pertanto non-integrazione della cura.

La ricerca indubbiamente va avanti, anche in questo caso si racconta di integrazione delle Neuroscienze con la Psichiatria e la Psicoterapia ma in realtà le evidenze portate dai tanti studi soprattutto di neuroimmagini, dovrebbero servirci a confermare quello che il lavoro sulla relazione, la Psicoterapia, comprende, attiva e cambia già da numerosi decenni.

È un traguardo importante perché dimostra che la persona è un unicum invece di tanti diversi frammenti.

Le conseguenze delle relazioni affettive di riferimento, soprattutto precoci, incidono sullo sviluppo psicofisico del bambino e dell’adulto di domani racchiude il fulcro nodale della Ricerca.

Questa integrazione è fondamentale perché aiuta a togliere il velo di dubbio, di svalutazione e di attribuzione di significati distorti al lavoro relazionale di cura psicoterapeutica ma osservo anche che le risposte della scienza sono spesso utilizzate come rinforzo dell’unico occhio che vede la realtà umana: quello oggettuale e concreto.

La ricerca continua della giustificazione esplicitata da “c’è qualcosa nel cervello che non va” assorbe gran parte dell’approccio all’essere umano e lo condanna in un vicolo cieco: possiamo aiutarti a stare meglio per quello che sei, con questa diagnosi, con questa spiegazione oggettiva di quello che accade in te che ti fa stare male o agire e pensare in una determinata maniera, ovviamente patologica.

I farmaci dilagano e con essi le Psicoterapie che si appoggiano al continuo utilizzo di questi, insieme alla sempre maggiore certezza di quella diagnosi e dell’inevitabile trattamento possibile per quella condizione.

È senza dubbio vero che l’impatto della pandemia ha e avrà implicazioni importanti per il benessere psicofisico di moltissime persone e proprio per affrontare profondamente questa sfida che ci chiama ad agire meglio e di più come professionisti della salute mentale, la Cultura Psicoterapeutica deve interrogarsi sullo stato del trattamento e pertanto, ripeto, dell’approccio alla persona.

Molto prima del Covid erano in aumento i disturbi mentali e l’utilizzo dei farmaci psichiatrici; tanti pazienti hanno fatto già ricorso a uno o più percorsi di cura ma si sono ritrovati a stare di nuovo male a prescindere, per certi versi, e in conseguenza, per altri, della pandemia.

Ascoltando le storie di queste persone che vedo per una nuova, alcune volte ennesima richiesta di aiuto, mi accorgo che sono pieni di nozioni, di nomi, di concetti, di preparazione teorica sulle loro problematiche ma poco esperti dell’aspetto per loro essenziale, lo stare bene https://www.mbpsicoterapia.it/la-psicoterapia-e-loceano-di-citazioni-e-riferimenti-storici-in-cui-e-immersa/ .

Il sentire è stato sostituito appieno con il pensare cui ha contribuito anche l’approccio alla persona che il paziente ha sperimentato in alcuni percorsi intrapresi o che gli sono stati suggeriti.

L’occhio aperto sull’oggetto (problema/diagnosi) si è spesso completamente sostituito all’altro occhio che deve vedere in verticale e non in orizzontale chi c’è dietro quella diagnosi.

L’ipotesi che ho sempre intravisto osservando e pensando a quanto accade è che l’occhio del sentire si chiude e si utilizza l’occhio del vedere oggettivo, perché la relazione e con essa tutto il mondo che ne consegue affettivo ed emotivo, può far paura talvolta allo psicoterapeuta più di quanto la faccia al paziente.

Agganciarsi a quello che si vede protegge, la diagnosi offre certezze, il farmaco tampona i rischi, la ricerca organica conferma e tranquillizza (se pensata come causa e non conseguenza della psicopatologia).

Le persone invece non stanno proporzionalmente meglio rispetto a quanto l’esplosione di (apparenti) conferme che ci investe da anni, dovrebbe determinare.

Sono convinto al contrario che in parte il sapere, trovare e leggere ovunque, dai quotidiani a Internet, alla televisione, che si scopre in continuazione la causa organica (materiale) del problema, contribuisca all’incremento della sfiducia delle persone sulle possibilità di cura.

Il paziente per primo ha la consapevolezza che lui o lei non è la sua malattia, anche se è chiaro che la sofferenza insieme al potente mix di messaggi esterni di incurabilità, fa vacillare se non perdere apparentemente queste sensazioni di sé e con esse il desiderio di poter essere una persona e non un malato.

La Cultura Psicoterapeutica dovrebbe rendersi di più conto di quanto stia accadendo perché è fatta di persone e queste persone forse stanno un po’ perdendo fiducia vera e profonda dell’importanza e del significato della relazione di cura.

È il motivo che mi conduce con assiduità a parlare della rilevanza della Formazione poiché i giovani professionisti sono cresciuti, da bambini e ragazzi prima di intraprendere gli studi e le carriere, in un contesto culturale in cui la relazione andava cambiando alcuni dei suoi aspetti cardine, focalizzandosi sempre più sull’individualismo, il funzionamento del singolo e la performance declinata nei diversi aspetti della vita quotidiana https://www.mbpsicoterapia.it/ancora-sulla-formazione-dello-psicoterapeuta/ .

Se la Cultura Psicoterapeutica non si scuote rispetto a questa cecità e continua a lasciare l’occhio che “sente” chiuso o semichiuso, insieme al Covid, continueremo a sperimentare purtroppo una diffusione ampia del malessere psicofisico.

Non possiamo sostenere solo l’avanzare della scoperta dello specifico marker, del modello di trattamento per quello specifico disturbo che raccoglie in un unico contenitore realtà e possibilità umane completamente diverse.

I cambiamenti di gestione del lavoro e della vita privata che si stanno organizzando come effetti a medio termine del Covid, richiedono una riflessione sostanziale da parte della Cultura Psicoterapeutica e, dove da una parte, è implicito del nostro lavoro mantenere una malleabilità introspettiva per guardare sempre ai tempi che cambiano e non rimanere irrigiditi in visioni cristallizzate della realtà esterna, dall’altra è centrale prendere le distanze da alcuni passaggi sociali e culturali in corso.

Per esempio la Psicoterapia non può richiedere ai nostri pazienti di attivarsi diversamente, di disassuefarsi dal continuo contatto con il mezzo digitale, social media, serie con puntate infinite e bulimicamente seguite per giorni e notti intere, quando si sta predisponendo a una larga risposta di sedute online e da remoto.

Il setting a distanza è servito nell’emergenza per non perdere il rapporto e per aiutare chi si è ritrovato in crisi con il lockdown e le restrizioni, è uno strumento utile per casi specifici come persone che non possono materialmente e concretamente raggiungere uno studio ma non può oggi rappresentare il corrispettivo dello smart working aziendale.

Offre il vantaggio che comunità isolate possono sentirsi meno abbandonate, che chi si traferisce per lavoro possa mantenere continuità con la relazione psicoterapeutica, che chi è fisicamente limitato sia comunque aiutato psicologicamente laddove non possa muoversi.

Per il resto non può essere, come invece sta diventando, un’alternativa giustificata da evidenze di economia di sistemi.

Si parla di risparmio/guadagno non solo in termini monetari ma anche di qualità di vita perché tra le varie, si risparmia sul tempo di raggiungimento degli studi, di costo della seduta, di affitti degli spazi da parte dei professionisti che possono anche lavorare da casa e molto altro.

La vera spesa/perdita rischia di essere la qualità della relazione e della cura per molti motivi: il più evidente è la tridimensionalità del setting che è fondamentale all’attivazione globale del rapporto.

È importante considerare una seconda riflessione che mi sembra molto trascurata rispetto all’approccio a distanza: è molto difficile che i setting possano non essere inquinati.

A distanza le due persone della relazione, non parliamo dei gruppi, subiscono inevitabili interferenze dall’esterno, dal citofono che suona, da altre persone che sono nelle altre stanze e distrazioni che in ogni casa sono innumerevoli e inevitabili.

La relazione così è alterata nei suoi due aspetti imprescindibili: la presenza fisica e l’assenza di disturbi ambientali.

Le mie conclusioni sono rivolte a rinforzare la necessità di inserire, tra gli indici di Ricerca, Evoluzione e Progresso delle Scienze della Salute Mentale, la riflessione sullo stato della Psicoterapia e nello specifico sullo stato del pensiero contemporaneo sulla realtà umana e l’approccio alla relazione.

 

Michele Battuello