Il concetto di Potenziale Umano nasce dalla sintesi del contenuto onirico e relazionale dei pazienti durante le sedute di psicoterapia.
Nel fitto intrico dei sogni che – talvolta in maniera potente e disarmante, altre volte in forme più celate e complesse – rappresentano la psicopatologia, così come negli innumerevoli vissuti, manifestazioni verbali e non, sintomi e pensieri che mostrano il disagio e la sofferenza dei pazienti, è presente il Potenziale Umano.
È l’intatto, il valido, l’integro che è rimasto nell’individuo rispetto alla prepotenza della malattia mentale, ed è quello che andiamo a cercare contestualmente alle dinamiche disfunzionali: le tracce inconsce del funzionamento del bambino di allora.
Il Potenziale Umano rappresenta, infatti, la fisiologia dell’individuo che è completamente sano a partire dalla nascita e ha delle caratteristiche specie specifiche del nostro essere esseri umani.
Questo bagaglio con cui si nasce è rappresentato, in termini relazionali, da un investimento continuo del bambino sul mondo che assume un significato totalmente affettivo perché è una ricerca costante della relazione in termini qualitativi più che quantitativi.
In termini psicodinamici la realizzazione di tale investimento rimane come traccia inconscia di vissuti validi che nel loro insieme vanno a costituire le basi dell’identità umana in un processo evolutivo che va oltre la prima infanzia, arricchendosi via via delle esperienze che il bambino, l’adolescente e l’adulto fanno e faranno del mondo.
Il Potenziale Umano emerge spontaneamente dal lavoro clinico poiché per prassi, per formazione, per approccio metodologico, si è partiti dall’elaborazione della malattia mentale per curarla, pertanto per trasformare le dinamiche patologiche.
I pazienti portavano nei sogni e nella relazione psicoterapeutica le loro parti valide.
Sembrava delinearsi un’immagine altra rispetto a quella patologica, magari celata o talvolta più chiara, ma si imponeva comunque come una sorta di rivendicazione di sé come non malato.
Passava il tempo e si cominciava a proporre, soprattutto nei primi incontri di valutazione o all’inizio della psicoterapia vera e propria, in maniera diretta al paziente l’ipotesi che ci fossero immagini interne e pertanto sogni che contenessero elementi affettivi intatti fondamentali per la cura e che potevano emergere per affrontare parallelamente il lavoro sulla patologia.
I pazienti rispondevano alla proposizione diretta con immagini ancora più chiare, talvolta potenti, di quello che in loro aveva funzionato ed era stato lasciato in un angolo della loro mente perché impossibilitato nel tempo a emergere per l’incombere della psicopatologia.
L’immagine del Potenziale Umano ha preso allora forma con sempre maggiore definizione ed evidenza.
Gli stessi approcci psicoterapeutici o anche il semplice pensiero su di sé dei pazienti o di chi stava loro intorno, troppo concentrati a risolvere, capire e affrontare la patologia, non davano particolare rilevanza alle immagini che, invece, dimostravano il contrario.
Così, storicamente, il pensiero sulla malattia mentale prima e la metodologia di trattamento poi, ha visto l’individuo nel suo essere paziente come un unicum soggiogato dalla patologia.
È una visione parziale perché tralascia il vero punto di forza per la cura della malattia mentale: scoprire anche in casi molto gravi dal punto di vista clinico le tracce inconsce dell’essere stato “in grado di” nella storia e nelle esperienze dei primi anni di vita.
Così come ogni scoperta non nasce isolata, ma è il frutto sempre di un movimento umano collettivo di un determinato periodo storico, anche il Potenziale Umano non è una qualità che prima non era stata individuata o che non era stata cercata e affrontata da altri; piuttosto, il Potenziale Umano, seppure intuito, non ha trovato un campo di applicazione potente nella cura della malattia mentale perché non si è saputo contestualizzarlo nel suo emergere inconscio e pertanto nell’interpretazione dei sogni.
Da molti anni, infatti, dalle ricerche dell’Infant Research sul bambino osservato e dagli studi descritti da D. Stern, si è andata sviluppando la teorizzazione dello sviluppo psico-fisico dell’essere umano e dell’importanza per il mantenimento e il rinforzo della sua sanità base, delle prime relazioni con il mondo circostante, principalmente la madre e/o gli adulti di riferimento.
Successivamente il perfezionamento delle neuroscienze e la necessità di trovare i correlati neurologici delle emozioni, della coscienza e delle relazioni, integrate con i nuovi approcci psicoanalitici basati sull’intersoggettività, hanno evidenziato l’esistenza di quello che chiamiamo Potenziale Umano.
A quel punto, però, oggetto del trattamento psicoterapeutico è diventata la relazione nel qui ed ora, e il contenuto dei sogni in termini di dinamiche patologiche e dinamiche sane originatesi nelle relazioni primarie è stato messo in secondo piano. Ancora oggi i protocolli terapeutici sia psicologici che farmacologici o combinati partono da un presupposto diagnostico che, inquadrando lo spettro psicopatologico a priori, alla fine racchiude sotto un’unica campana quadri clinici simili tra di loro.
Ritengo questo approccio valido ma incompleto perché tralascia gli elementi rintracciabili del Potenziale Umano del bambino, strumento fondamentale per la diagnosi e la cura psicoterapeutica.
L’esperienza clinica di psicoterapia porta a scoprire, partendo dall’adulto, il paziente, per ritrovare in modo progressivo il bambino sano nel contenuto dei sogni e della stessa relazione psicoterapeutica, associando alla cura la ricerca sugli esseri umani.
(segue)
Michele Battuello