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Effetti psicologici del Covid-19 sulla popolazione: distinzioni

Nel gran circolare di informazioni e numeri purtroppo prevalentemente drammatici e preoccupanti, associati alle conseguenze dell’epidemia da Covid-19, quelli che illustrano e prospettano gli effetti psicologici e sociali arrivano subito dopo i danni dei quadri clinici dell’infezione.
Assistiamo anche a grandi disquisizioni in merito alla registrazione, elaborazione, interpretazione e successive riletture di tutto questo materiale che, rischiano di essere fuorvianti e generare confusione e andrebbero lasciate alla disciplina di riferimento, l’Epidemiologia.
Non è un tema semplice se pensiamo che soltanto gli aspetti virologici poco conosciuti, le manifestazioni cliniche multiformi e la sovrapposizione di concomitanti patologie e/o stati psico-fisici da chiarire, generano un dedalo di possibilità in corso di scoperta e conoscenza, vista la comparsa recente nell’organismo umano di questo specifico Coronavirus.
Altrettanto complesso è, e sarà, considerare, per un adeguato trattamento, i quadri psicopatologici che emergono diffusamente per il coinvolgimento diretto e indiretto delle persone nell’epidemia.

Proprio perché parliamo di persone è necessario tenere a mente delle distinzioni: dove, da una parte, non è possibile restringere il campo alle differenze soggettive di presentazione ed evoluzione dei quadri clinici di ogni singolo italiano potenzialmente coinvolto, dall’altra, parlare di un eventuale 60% e più della popolazione colpita in un modo o nell’altro da disturbi della sfera psichica può generare ripercussioni emotive in un periodo già estremamente complesso.
Il Pronto Soccorso Psicologico, Psicoterapeutico e Psichiatrico è attivo in forme eclettiche su tutto il territorio soprattutto grazie alla rete che ha il grande vantaggio di poter dare aiuto da remoto, oggi più che mai che siamo obbligati a mantenere le distanze e/o rimanere chiusi in casa.
Sappiamo che la classificazione categoriale di segni e sintomi all’interno di precisi quadri va per la maggiore anche nel nostro paese e la rapidità con cui si può fare diagnosi può essere utile quando si devono prendere in carico moltissime persone come in questi mesi, ma mi auguro non sia l’unico modello di approccio utilizzato perché rischierebbe di assegnare automaticamente un’estrema gravità agli effetti psicologici dell’epidemia da Coronavirus, bloccando in quella cornice drammatica la maggior parte di noi.
Le distinzioni di cui parlo sono probabilmente note a tutti i professionisti della salute mentale ma spesso ci si accorge che non vengono poi così utilizzate nella pratica clinica per un approccio all’essere umano troppo focalizzato sul deficit piuttosto che sulla risorsa.

Il primo punto chiaro e insindacabile è che coloro i quali sono stati a contatto con la malattia, operatori, pazienti, parenti e affetti importanti, hanno vissuto direttamente eventi i cui effetti possono essere traumatici e sono suscettibili di conseguenze psicopatologiche importanti tra cui il Disturbo Post Traumatico da Stress e hanno necessità delle maggiori attenzioni e cure da parte di esperti delle Emergenze.
Poi c’è il resto, ampio e variegato, della popolazione che sta affrontando le restrizioni sociali, la paura dell’infezione e della contaminazione, l’isolamento domiciliare, la perdita del posto di lavoro e l’incertezza sul futuro, per citare soltanto alcune delle conseguenze secondarie ma importantissime dell’epidemia.
In questo caso parliamo di milioni di persone che possono essere coinvolte in una sfera estesa di attivazioni psichiche.
Le chiamo attivazioni psichiche per accedere alle distinzioni di cui accennavo: è intuitivo che degli effetti psicofisici correlati all’unicità del periodo siano possibili e prevedibili e sia necessaria una capillarità di assistenza sul territorio ma è fondamentale anche capire con quale approccio all’essere umano i professionisti si relazionano con le persone coinvolte in queste attivazioni.
Ci sono casi in cui un quadro psicopatologico è presente da prima della comparsa del Covid-19 e che dovrebbero proseguire, il percorso psicoterapeutico e/o farmacologico intrapreso in precedenza.

In secondo luogo alcune persone possono o potranno slatentizzare delle problematiche storiche che non hanno mai, apparentemente, creato difficoltà in passato e questo sottogruppo andrà conosciuto non solo nel qui ed ora della situazione attivante ma in una più ampia comprensione del paziente, ritengo, in questo caso, opportuna la valutazione per una psicoterapia.
Infine ci sarà la maggior parte della popolazione che presenterà sintomi e disagi quotidiani come diretta conseguenza dello stravolgimento della qualità di vita ma in assenza di una psicopatologia di base che avrà bisogno di supporto e/o di ascolto, nel caso in cui ce ne fosse richiesta, più che di un vero trattamento psicoterapeutico.
Quando parlo di modalità di approccio all’essere umano dello Psicoterapeuta mi riferisco proprio a un pensiero acquisito sulle risorse fisiologiche di possibilità elaborativa del disagio, conflitto, problematicità di ognuno di noi che, se non realmente cercate e osservate nella relazione, rischia di passare il messaggio, tanto più in un momento così delicato, che, se ci sono uno o più sintomi, allora c’è un problema, un disturbo o un’incapacità di far fronte alla complessità.

Se il pensiero del professionista è troppo agganciato a un nesso causa effetto tra epidemia, sue conseguenze e insorgenza di quadri clinici conseguenti, si potrebbe cercare o pensare per forza la psicopatologia laddove non è scontato che si verifichi.
È quello che purtroppo osservo nella comunicazione continua da parte del mondo della salute mentale che è talmente in sovraccarico di allarme che credo possa surriscaldare un clima già particolarmente bollente.
Il messaggio diffuso è, infatti, che dovunque ti trovi possiamo raggiungerti e affrontare il malessere, i sintomi.
È chiaro che tutti vogliamo la sedazione del dolore e il nostro lavoro serve anche e soprattutto a questo obiettivo, a maggior ragione in un momento così drammatico, ma la responsabilità di Psicoterapeuti è anche quella di far capire, quindi comunicare, che sofferenza non è sempre sinonimo di malattia.
La corsa alla risoluzione del sintomo porta a non distinguere le diverse condizioni di cui parlavo sopra, tra cui l’ultima, che coinvolge il più delle persone, comprende malessere, anche forte ma che non è patologia, è una reazione fisiologica a fatti che comportano un impatto emotivo rilevante su ogni essere umano.

Il lavoro importante e necessario, di prendere in carico chi sta soffrendo ed essere d’aiuto, deve contenere questi presupposti di modo che il miglioramento non venga solo dalla gestione o sedazione diretta dei sintomi ma dal riconoscere alla persona in difficoltà che quello che sta avvenendo non è necessariamente malattia ma può essere una possibile conseguenza dei fatti.
Focalizzandosi sulle risorse esistenti, attivate ma magari poco riconosciute dal singolo, si può realizzare un cambiamento efficace rispetto al solo concentrarsi sul non funzionamento.
D’altra parte è altrettanto importante rendersi conto quando il malessere sia la conseguenza di una psicopatologia preesistente per cui l’epidemia ha solo funzionato da attivatore di tale problematicità.
Esiste un ultimo aspetto da tenere in considerazione che riguarda gli operatori della salute mentale: nel massivo reclutamento di psicologi, psicoterapeuti e psichiatri per l’emergenza si dà per scontato che il professionista si renda disponibile all’aiuto senza un sistema di controllo, osservazione e valutazione del professionista stesso.

La differenza di questa emergenza con le altre di recente conoscenza, i disastri naturali, l’immigrazione e molte altre situazioni particolari e specifiche in cui gli operatori sono comunque esterni alla tragedia/dramma poiché non coinvolti in prima persona, è che il Covid-19 ha messo in isolamento i professionisti stessi in larga parte, li ha sottoposti alla precarietà del lavoro, a ridotte risorse economiche e a incertezza per il futuro quanto le altre persone, in maniera trasversale.
Pertanto ci sarebbe un grosso rischio di collusione a maggior ragione se l’eventuale disagio personale dello psicoterapeuta entrasse in risonanza per similitudine con quello della persona/paziente.
Purtroppo, tra le innumerevoli offerte di supporto presenti in rete, è infrequente trovare un riferimento di formazione, preparazione o supporto agli stessi psicoterapeuti prima di intraprendere l’aiuto per le conseguenze dell’epidemia.
La formazione deve essere sì specifica per gli aspetti clinici infettivologici e psichici dell’infezione ma prima di tutto dovrebbe occuparsi di valutare e eventualmente aiutare i professionisti prima che si mettano al lavoro in un campo che li ha coinvolti direttamente e che può aver attivato problematiche o malesseri più o meno evidenti.
L’indubbia necessità di agire velocemente per la varietà di contesti e situazioni a rischio, deve contenere anche la prudenza rispetto a diagnosi troppo affrettate dovute a pensieri a priori sull’emergenza da Covid-19 e deve trovare degli operatori attentamente valutati dalle strutture, organizzazioni, società pubbliche o private che si stanno attivando per l’aiuto, il sostegno e il trattamento a distanza.

Michele Battuello