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Differenze tra Autonomia e Individualismo dello Psicoterapeuta


Gli accessi sono sorvegliati.

L’ingresso è contingentato.

Il tempo di permanenza e di sosta è ridotto al minimo.

L’uscita è consigliata il prima possibile.

I pochi movimenti permessi sono costretti in percorsi precisi e obbligati.

Le aree di sosta e incontro sono vietate raggiunto un certo numero di persone.

È obbligatorio mantenere la distanza di sicurezza.

La prima riga che in realtà avevo scritto era “Il proprio orticello è sempre più circoscritto e difeso” ma quando ho riletto la seconda “Gli accessi sono sorvegliati”, le altre sono arrivate insieme, associate all’immagine di un qualsiasi posto ad alta affluenza in periodo di pandemia da Covid.

Sono le regole della convivenza negli spazi chiusi comuni per contrastare il virus ma sono quelle che ho trovato più adatte a fotografare (una parte, mai il tutto) la condizione relazionale contemporanea.

Per questo partivo dall’orticello che mi sembrava più attinente ma forse meno attuale nel suo valore simbolico.

Ci rivedo una persona che tende a ritirarsi all’interno dei propri spazi, consentendo al minimo gli scambi con l’esterno, che devono essere difesi come se l’incontro sia più immaginabile come rischio e pericolo che non come piacere e desiderio.

Inevitabilmente il rapporto con il mondo diventa più scontro che incontro e questo si osserva come un’onda sociale che presenta personalità espresse dalla tensione, dall’irritabilità e suscettibilità fino all’esplosione irruenta e aggressiva.

La fine delle restrizioni Covid-correlate sta avendo degli effetti di comprensibile esuberanza e voglia di riappropriarsi degli spazi e dei momenti negati, soprattutto di svago, che in non rari casi si esprimono però oltre la linea di confine dell’euforia che diventa tensione, agitazione se non rabbia.

Il tempo ci aiuterà a capire quali siano le conseguenze psicosociali di oltre un anno e mezzo di confinamento, credo che si tratterà di fasi temporanee e diverse che si susseguiranno per molti mesi.

Il mio pensiero è che la grande fatica del singolo di ritrovare un posto nella collettività sia legata agli ultimi decenni di prevalenza dell’individualismo culturalmente diffuso che ha privato in parte delle capacità di vivere gli altri come risorsa e non come pericolo.

Non mi occupo però di grandi ipotesi sociologiche ma posso interessarmi al qui e ora della realtà in Psicoterapia e nell’ambito della Formazione in Professioni Sanitarie.

Il riferimento all’orticello sostituito poi dalla metafora associata alle restrizioni Covid è pensato soprattutto per i giovani professionisti che hanno iniziato da poco o si stanno per specializzare in quelle attività che sono a contatto con le persone e, spesso, con le loro difficoltà, psichiche, fisiche o psicofisiche.

Osservo in queste figure neo professionali uno spaccato del sociale e una tendenza a far prevalere le istanze individuali su quelle altrui, a focalizzarsi sul tecnicismo specifico della professione, sul pensare se stessi come fulcro e centro dell’attenzione formativa.

In parte è necessario ed è obiettivo della formazione realizzare un processo di individuazione per cui l’identità del futuro professionista, soprattutto della salute mentale, trova o rinforza delle basi sicure e un senso di appartenenza a Sé come rappresentazione di autonomia intesa come libertà dal bisogno di proiettare sull’altro, il paziente, propri bisogni rimasti insoddisfatti.

Questo passaggio fondamentale però si aggancia in forma difensiva al contesto socioculturale contemporaneo in cui, soprattutto il giovane professionista, entra in risonanza con schemi di individualismo e chiusura nei propri spazi che invece sono la negazione dell’autonomia raggiunta.

L’identità della persona, giovane o futuro psicoterapeuta, nello specifico di questa professione, mischia l’autonomia raggiunta con la rappresentazione di un Io auto riferito che si focalizza sull’ascolto dell’altro, il paziente.

Questo Io così strutturato è un Io conosco, Io so, Io sono in contatto con me stesso e le mie emozioni, Io posso affrontare il paziente con le sue difficoltà.

Le frecce della relazione sono così molto direzionate dall’altro verso l’Io del professionista quindi come la capacità di accogliere quello che arriva dall’esterno e di elaborarlo attraverso un sistema che è basato sulla focalizzazione su Sé e pertanto che offre risposte che fanno affidamento su un pensiero ego riferito che cerca di trovare la migliore soluzione per quello che Io sento, Io penso, Io credo.

Ho la sempre più frequente sensazione che manchi un passaggio precedente, quello in cui le frecce direzionali sono primariamente rivolte all’altro, che è la caratteristica primaria della (futura) relazione psicoterapeutica: l’Io professionista o in Formazione è libero dalle necessità personali e per questo si ritrova appassionato e interessato direi, per natura, agli esseri umani.

L’orticello è un campo aperto, i confini non sono limitati, gli accessi non sono sorvegliati proprio perché la persona-psicoterapeuta è definita e autonoma e quindi ha la maggiore disponibilità possibile prima per passione e poi per professione ad andare verso l’altro e non a concedere solo che l’altro, venendo verso di lui o lei, sia accolto.

Nelle numerose riflessioni che porto avanti in merito a Cultura Psicoterapeutica, Formazione nelle Professioni Sanitarie, Basi comuni per la Psicoterapia, Potenziale Umano etc. https://www.mbpsicoterapia.it/avvio-di-un-pensiero-unico-come-base-per-la-psicoterapia/; https://www.mbpsicoterapia.it/professioni-sanitarie-e-formazione-sullesperienza-relazionale/; https://www.mbpsicoterapia.it/la-cultura-psicoterapeutica/; https://www.mbpsicoterapia.it/il-potenziale-umano-introduzione/   mi riferisco spesso alla necessità di aprire il pensiero alle fondamenta della relazione tra esseri umani, la fisiologia, e ritrovare questa come appartenenza al processo di Formazione prima e di Cura poi.

L’approccio settorializzato e specializzato intrinseco ai movimenti socioculturali attuali, sottrae la persona professionista dall’andare al prima della sua attività rivolgendosi solo in avanti e non permettendosi di realizzare che un certo tipo di coerenza con il tempo contemporaneo genera una forte identificazione con l’individualismo moderno su cui rischiano di impiantarsi le fondamenta professionali.

Quindi inconsapevolmente l’identità dello psicoterapeuta si struttura sull’Io autonomo inteso come confinato e isolato dall’Io dell’altro attraverso la linea di confine della professione e quindi dello sbilanciamento relazionale di un Io che comunque si posiziona più in alto di quello del paziente.

Anche quando, a parole, questi confini vogliono essere superati all’interno del setting, rischia invece che si ricrei, diverso ma simile, un confine se il giovane professionista non acquisisce e non vive di nuovo sulla sua pelle il significato dell’autonomia come massima capacità di stare in relazione invece di ritrovarsi solo come un Io risolto e individualisticamente autonomo.

Si osserva questo processo maggiormente all’interno degli spazi formativi in cui c’è il ritorno di un vecchio modello di acquisizione fondato sul ricevere dal docente, conservare e applicare alla pratica clinica.

Lo scambio e il confronto formativo esistono ma sono indirizzati spesso al mettere in evidenza gli aspetti tecnico-professionali celando quelli personali che invece sono la base delle Professioni Sanitarie.

La persona è poco disponibile alla messa in gioco di Sé perché è abituata a proteggersi come schema socio culturale, e ritorno alla metafora dell’orticello, perché al contrario disabituata alla propensione spontanea verso gli altri.

Questo cammina in parallelo con un maggior disinteresse per il mondo esterno: i futuri professionisti oggi leggono, studiano e si confrontano solo sulla professione e tralasciano la conoscenza generale ma fondamentale, del mondo e degli altri: pochi giornali, pochi libri, pochi pensieri che vadano oltre l’Io del futuro professionista occupandosi invece dell’Io della persona.

L’effetto si riassume in un inconsapevole scarsa passione verso l’altro, mascherata da una forte propensione alla cura sostenuta però solo dall’oggetto professione che crea un disequilibrio non immediatamente visibile ma nel tempo percepibile nella qualità dei processi di cura.

Nella mia esperienza, pertanto parlo di Psicoterapia, vedo aumentare modelli veloci e settorializzati, o percorsi anche di una certa durata che in molti casi hanno portato il paziente a sentirsi meglio per gli aspetti disfunzionali ma più delle volte a non sentirsi colto nel suo essere, ritrovandosi così a stare male di nuovo al ripetersi di occasioni patogenetiche.

Così come vedo giovani professionisti che sanno molto della materia e sono anche capaci nella relazione ma in fondo non abituati alla passione per l’altro e quindi limitati nelle reali possibilità di cura.

A conclusione, continuo a sostenere, nel grande capitolo della Basi Comuni della Psicoterapia, che si ritrovi anche la consapevolezza e la voglia di sottrarsi alla condizione attuale contemporanea per cui obiettivo comune sembra essere il grande trionfo delle individualità e si lasci spazio alla risoluzione di dinamiche personali storiche di proiezioni sull’esterno di bisogni irrisolti (le identificazioni) e di conseguenza al ritrovamento del desiderio (l’opposto del bisogno) di interessarsi alla realtà umana. 

 

Michele Battuello