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Autonomia: differenze tra il significato culturale e la ricerca in Psicoterapia


Raggiungere l’autonomia, essere indipendenti, farcela da soli, sono solo alcuni dei messaggi che la famiglia, la società e la cultura ci tramandano come obiettivi tra i più importanti del diventare adulti.

In molti contesti questo traguardo è comunicato come un vero e proprio valore primario ed è interiorizzato nell’inseguimento del risultato performativo sinonimo di essere in grado di camminare con le proprie gambe e pertanto di identità.

Raggiungere l’autonomia è uno degli aspetti proposto anche in Psicoterapia ma con un significato diverso da quello sociale che è necessario chiarire per le ambivalenze che sono presenti talvolta sia nel pensiero dei professionisti stessi che nelle fantasie dei pazienti.

Prima di arrivare al processo psicoterapeutico, vorrei proporre una breve riflessione su semplici evidenze oggettive che ci circondano nella vita di ogni giorno in merito alle proposte culturali di autonomia.

Da molti anni sono seguite da milioni di persone pratiche di meditazione, ricerca dell’equilibrio, della risposta interiore, di rilassamento o di rinforzo delle proprie risorse che hanno una matrice comune nel voler aiutare la persona a focalizzarsi su di sé, a dare centralità all’Io che nel Noi sociale spesso perde di sicurezza e riferimenti, determinando disagi e sofferenze.

Sono attività che provengono da sentieri diversi, filosofici, scientifici e psicologici, appartengono alle tradizioni di alcune culture talvolta riadattate per società diverse da quelle originarie (come la nostra) che hanno come scopo nobile quello di aiutare le persone a trovare delle strategie per raggiungere il benessere.

Allo stesso tempo però l’utilizzo che ne viene fatto è di sostegno al messaggio di individualismo, di strada per ossigenare e rigenerare l’Io e dargli nuova energia.

L’uomo contemporaneo da molto tempo ormai è alla ricerca di una via di uscita o almeno di un alleviamento temporaneo dalla spinta incessante che proviene dall’esterno, del dover sempre dimostrare qualcosa, in una società legata all’immagine del funzionare.

Sul lavoro, in famiglia, con i figli, con i partner il messaggio culturale è focalizzato sull’individuo e sulla forza che deve trovare in sé per imporre e proporre la sua identità che è rappresentata dal funzionamento concreto, pertanto performativo.

Recentemente in Psicoterapia, una paziente mi raccontava, in merito al ricordare il momento della Laurea che aveva ottenuto con il massimo dei voti, che era stata a quel tempo felice perché aveva realizzato il più grande regalo che un figlio può fare a un genitore.

Questo semplice esempio riassume quale significato è attribuito al riuscire in chiave di realizzazione concreta di sé fino a diventare in molti casi un imperativo esistenziale e come tale una dolorosa e faticosa gabbia in cui si rimane intrappolati.

Centrare un obiettivo, ottenere risultati concreti e visibili, emergere in un contesto, comprendono aspetti importanti della vita quando sono espressione di un desiderio ricercato e ottenuto, non quando si accompagnano all’opposto, la negazione del desiderio, in quanto richiesta esterna e fatta forzatamente propria di dover realizzare.

Autonomia è, in quest’ottica, un obbligo culturale che non porta a una qualità di vita migliore, alla soddisfazione vera e piena della persona come spesso vediamo nel mondo intorno a noi: i risultati ottenuti non appagano ma rendono ancora più affamati di nuovi traguardi in una corsa continua in avanti senza sosta, i risultati non ottenuti si accompagnano a pesanti vissuti di fallimento e perdita di significato.

Con l’arrivo inatteso del lavoro e della didattica a distanza e la concentrazione di molto tempo in sola compagnia dello smart phone, stiamo osservando che all’individualismo si associa sempre più l’isolamento e la persona resta bloccata per lunghe e interminabili ore in nuove forme di asocialità seppur mascherate dall’apparente iper-relazionalità del mondo digitale.

Nel ciclo vitale della cultura della performance e dell’autonomia intesa come obbligo del singolo a emergere, è inevitabile che si crei la necessità di supportare la persona nella focalizzazione estrema su sé e per questo sono proposte e seguite le pratiche che servono a distrarre, rilassare, staccare la spina, trovare motivazioni interne ed esterne per andare avanti.

Il circolo vizioso si auto sostiene e acquisisce un moto perpetuo poiché serve a mantenere sempre vivo il baricentro sul Sé ma con scarsi risultati come mostrano le evidenze in merito all’aumento di problemi inerenti la salute mentale, conflitti e crisi relazionali, paure e incertezze rispetto al futuro che sono all’ordine del giorno nella vita delle persone.

La spiegazione è sotto gli occhi di tutti ma siamo abituati a essere ciechi di fronte ad alcuni aspetti della nostra stessa realtà: l’essere umano non è fisiologicamente preparato a essere autonomo inteso come poggiare il significato dell’esistenza sulle proprie forze, risorse, caratteristiche e capacità.

In questa impellente ricerca l’individuo si ammala e in moltissimi casi i pazienti che incontriamo ci chiedono proprio di essere o tornare a essere la negazione di Sé poiché credono che l’unico modo valido di essere ed esistere sia: funzionali, performanti, autonomi per l’appunto.

È una contraddizione di cui noi psicoterapeuti dobbiamo essere consapevoli e soprattutto su cui dovremmo trovare comunanza di pensiero e di intenti per la pratica clinica: la persona, totalmente identificata con il messaggio sociale e quindi vincolata e bloccata nell’obbligo dell’individualismo, chiede o cerca il modo per essere più autonoma, più in grado di,  andando così a foraggiare la dipendenza da un sistema di pensiero che propone l’esatto opposto dell’autonomia.

Al contrario di sentirsi distinto e separato dagli altri, l’essere umano cerca in questo modo di entrare o rimanere in un’immagine omologata che spesso non gli appartiene ma che lo tranquillizza nel momento in cui riesce a mettere in scena la maschera richiesta.

In Psicoterapia utilizziamo lo stesso termine, autonomia, talvolta indipendenza che può generare confusione e false illusioni perché in realtà, il suo raggiungimento è inteso come superamento delle dinamiche identificatorie, familiari e sociali, che non hanno permesso al bambino e poi all’adulto di pensarsi, sentirsi, vedersi come persona a sé, con una sua specifica identità.

Il lavoro, per quanto mi riguarda, è basato sulla risoluzione di esperienze vissute nelle relazioni, che hanno obbligato a strutturare inconsciamente, dei meccanismi di difesa per affrontare lo sviluppo e la crescita dopo che le importanti risposte affettive soprattutto con gli adulti di riferimento erano negate, gestite con ambivalenza o focalizzate sul fare più che sul sentire.

Di conseguenza il bambino ha iniziato precocemente a vivere le separazioni, dalle prime autonomie al riconoscersi come adolescente-adulto, come fonte di incertezza, paura se non angoscia, mitigandole tramite l’identificazione che in sintesi rappresenta lo sguardo sul mondo con gli occhi dell’altro (genitore/partner/figure sociali di riferimento), mortificando l’espressione di Sé.

Autonomia ha un significato opposto a quello che il paziente/società spesso ci richiede: è il ritrovare la relazione con l’ambiente esterno, gli esseri umani, come libera dai vincoli del bisogno di riconoscimento, di dipendenza e dell’impossibilità di desiderare.

La persona non è sola in mezzo agli altri con la necessità di emergere, di spiccare e di distinguersi come impellenza di significato ma al contrario può emergere, spiccare e distinguersi proprio quando non deve rispondere a degli imperativi costruiti dall’identificazione.

Ritengo che la performance, il risultato, il ruolo siano assolutamente parte dell’espressione della realtà umana perché altrimenti saremmo omologati e stereotipati in un’uguaglianza che invece non ci corrisponde ma queste sono le conseguenze e non le premesse del superamento e del rifiuto delle dinamiche identificatorie che attribuiscono un giudizio di valore al raggiungimento o meno dell’individualismo sociale.

È solo quando la madre riconosce al figlio la sua identità distinta e separata e con lei la società, che le parole autonomia e di conseguenza possibilità di realizzare diventano vere, effettive ed efficaci perché corrispondono allo stare nel mondo non dovendosi aggrappare alle richieste del mondo.

Sempre, nella storia dell’umanità, il singolo che ha rappresentato il cambiamento, con una sua idea innovativa, con un ruolo di rilievo, con una scoperta, non è mai stato un’unità a sé che come una meteora, è precipitato in quel tempo, ma è sempre stato una sintesi del movimento familiare, culturale e sociale di una collettività che ha permesso a quella persona di esprimere e incarnare la differenza.

L’individuo che emerge spicca ed è entusiasmante che sia così, perché attiva sue peculiari risorse di fantasia, creatività, intelletto ma che hanno le radici nel tessuto sociale in cui è immerso, un collettivo che già stava costruendo, pensando, realizzando quel cambiamento che poi in molti casi è espresso dall’intuizione specifica, talvolta geniale di uno solo a culmine di un intero movimento interumano.

Ma quel “solo” non è l’essere umano che deve imporsi individualmente tra la folla ma è una delle rappresentazioni potenti della nostra capacità di stare in mezzo agli altri e attingere, costruire e condividere dalle relazioni senza bisogno di prevaricare, annullandola, l’identità dell’altro.

In Psicoterapia è importante rendersi conto dell’effettivo utilizzo che il paziente sta facendo dell’autonomia che riconquista perché, soprattutto per chi lavora con le dinamiche inconsce e i sogni, è frequente osservare l’uso intellettuale dell’interpretazione che si traduce con il concettualizzare la ricerca sull’autonomia.

In questo modo il paziente si pensa e si crede autonomo come raggiungimento di quell’individualismo opposto all’autonomia come superamento delle identificazioni, affermando un’apparente superiorità e incrementando i suoi ruoli performativi dietro lo scudo protettivo dell’elaborazione psicoterapeutica.

In realtà rischia di espandere i suoi meccanismi di difesa sostenuti dall’uso mentale dei contenuti psicoterapeutici: una fase del genere non è sempre analizzata a sufficienza nel setting poiché coincide con concreti miglioramenti in termini di risultati visibili e di associato tono dell’umore favorendo l’appagamento di entrambi paziente e psicoterapeuta ma dissimulando ancora una fragilità del Sé.

Il risultato sfocia nell’idealizzazione della Psicoterapia, incarnata dalla cornice teorica o dal singolo professionista, che diventa modello astratto di osservazione sulla realtà e i suoi contenuti assunti a parametro di valore e di giudizio nel rapportarsi agli altri.

 

Michele Battuello