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Attività dello Psicoterapeuta e suoi rischi

La Psicoterapia che pone i suoi principii sulla relazione, in termini qualitativi pertanto affettivi, piuttosto che quantitativi pertanto primariamente mentali, organizzativi e funzionali, ricorre a uno Psicoterapeuta emotivamente attivo.
Take attività si riflette nel cogliere, attraverso l’interpretazione della relazione e dei sogni, i contenuti del paziente, per discriminare, tra tutto il materiale portato in seduta, gli aspetti focali per la trasformazione delle dinamiche patologiche, il cambiamento e la cura.
Poiché la scelta non è categoriale, pertanto razionale, ma si basa su un processo spontaneo di riconoscimento dell’essere umano/paziente, grazie al libero lasciarsi andare al rapporto, l’affettività dello Psicoterapeuta è inevitabilmente presente nella relazione e finché si mantiene su questo registro qualitativo è efficace e produttiva di risposte per la crescita e il proseguimento della Psicoterapia.
Il rischio di risposte emotive dannose per la relazione, solo in questo caso parlerei di controtransfert, avviene quando il professionista, a causa di risonanze personali rispetto ai contenuti del paziente, che denotano una irrisolutezza di fondo della persona/psicoterapeuta, è costretto a difendersi instaurando un confronto pensiero-pensiero, innescando reazioni che sono disconnesse dalla relazione.

Sia che si tratti di rabbia e aggressività o di empatia e comprensione, non possono ritenersi genuine e utili alla cura, poiché sono ricollegabili a identificazioni storiche dello psicoterapeuta non elaborate: per questo motivo è così necessaria una formazione che immerga a lungo e a fondo lo studente nelle sue dinamiche storiche, tramite l’esperienza relazionale di gruppo con le caratteristiche che ho descritto nello spazio dedicato alla formazione (https://www.mbpsicoterapia.it/la-formazione-dello-psicoterapeuta-e-il-lavoro-di-gruppo/).
Ci sono degli altri rischi che però devono essere presi in considerazione sull’attività dello Psicoterapeuta che riguardano come il materiale restituito al paziente venga utilizzato e il conseguente appagamento dello Psicoterapeuta.
Poiché la relazione ha come tramite diretto la parola, che rappresenta la forma, in Psicoterapia si cerca e si esprime il non verbale della parola che sarebbe il suo contenuto.

È chiaro che l’attività dello Psicoterapeuta è di rimandare una parola che sia piena di contenuto come intuizione dell’altro e come espressione vitale di tale contenuto.
Il paziente si è dovuto affidare alla parola pensata piuttosto che alla parola sentita in un processo di difesa per cui il suo investimento affettivo nei confronti del mondo, storicamente negato, ha determinato un’implementazione degli aspetti razionali, della forma a protezione del contenuto.
Anche con una buona alleanza terapeutica, può accadere che nello scambio relazionale, il paziente stesso continui ad agganciarsi per abitudine alla forma della parola anche se ne accetta progressivamente il contenuto, in questo modo, unito anche a un’inevitabile forza e sicurezza di sé che ritrova nel rapporto psicoterapeutico, rischia di usare la parola della seduta per muoversi nel mondo esterno.
In sintesi cerca di interpretare la realtà che vive fuori dal setting come fosse Psicoterapia ed è un processo spesso sottile che va colto, osservato e interpretato.
Come accennavo prima, tale processo è associato alla soddisfazione personale dello Psicoterapeuta e per questo diventa difficile da cogliere se non se ne ha consapevolezza poiché rischia di non rendere completamente libero il paziente ma di agganciarlo a una possibilità di relazione con il mondo qualitativamente migliore di prima ma vincolata dall’usare la chiave di lettura e interpretativa psicoterapeutica.

Fa piacere al professionista che il paziente stia meglio, che sia soddisfatto e anche innamorato della sua Psicoterapia ma altro è accorgersi che la stia utilizzando come nuova parola nella sua forma più che nel suo contenuto.
Questa dinamica l’ho osservata per esperienza clinica di Psicoterapie che si basano principalmente sull’interpretazione dei sogni per cui il forte contenuto emotivo e trasformativo focalizzato sul materiale inconscio onirico, portava alcuni pazienti ad attivare il cambiamento sicuramente con un miglioramento globale, risoluzione dei sintomi, senso di identità più coeso e integro ma anche a utilizzare gli emersi dinamici inconsci come lingua di comunicazione e di pensiero sul mondo esterno.
Il rischio di cui parlavo è che si passi attraverso una sottile linea di confine per cui da un lato c’è un funzionamento sano del Sé, dall’altro questo è però ancorato a un’idealizzazione della Psicoterapia e dei suoi contenuti che diventano pertanto una nuova regola che contiene il modo giusto di relazionarsi, le dinamiche corrette o scorrette degli altri e così via, sostituendo un controllore interno con un altro, sicuramente più valido ma non per questo accettabile.

Ulteriore complicazione potrebbe manifestarsi nel lavoro con i Gruppi per cui poi si crea una vera e propria ideologia rispetto a un modello o a una specifica figura che diventa il riferimento categoriale di appartenenza.
Questo rischio è determinato sia dalla personalità del paziente stesso che da quella dello Psicoterapeuta che nella sua attività affettiva nella relazione rischia di sovrapporsi e a essere eccessivamente sovrapposto a una figura di grande carisma.
Il carisma deve essere restituito al paziente come possibilità identica dei due o più membri della relazione di essere in grado di mettersi in gioco nei rapporti come ci sono riusciti all’interno del lavoro psicoterapeutico.
Il carisma è sostituito dall’unica realtà che lo Psicoterapeuta si è potuto attivare potentemente grazie alle risposte del paziente nella relazione e ai contenuti che porta e ha portato seduta dopo seduta pertanto è potente lo psicoterapeuta altrettanto come lo è il paziente, è chiaro che il presupposto è la capacità dell’uno di entrare in relazione con l’altro in maniera spontanea, genuina e libera.

Se così non fosse si riproporrebbe la posizione up dello Psicoterapeuta rispetto alla down del paziente che è passivamente trascinato nel cambiamento, come ha vissuto con il genitore in un processo di non riconoscimento che lo ha sempre lasciato nella dipendenza e nell’incertezza di sé rispetto alla figura idealizzata del genitore stesso.
È una delle nostre responsabilità professionali che dobbiamo tenere molto in considerazione e pertanto osservare nel processo, specificamente di poter passare un messaggio verbale che poi il paziente utilizza in psicoterapia ma soprattutto nel suo quotidiano che può essere ingannevole perché rappresenta più un’arma dialettica che uno strumento relazionale.
È la psicoterapia pensata e meno vissuta che ho avuto modo di esperire nei alcuni casi che ho seguito, provenienti da precedenti esperienze psicoterapeutiche.
I pazienti avevano sviluppato una consapevolezza e una terminologia descrittiva di sé appropriate e adeguate ma poco sentite perché la comprensione era stata solo mentale e non vissuta.

Il malessere era nonostante tutto ancora in atto perché mi rendevo conto che le persone erano rimaste sospese in una consapevolezza senza esiti, cioè senza una trasformazione reale in atto della psicopatologia.
È comprensibile nella posizione di paziente del paziente stesso, di trovare un punto di forza, di aggancio nel capire che cosa succede, gli è successo e accade intorno a lui e di utilizzarlo quindi per raccontarsi quello che vive e potersi relazionare agli altri con una consapevolezza migliore ma è soltanto un benessere transitorio se non ci rendiamo conto che ha ancora necessità di sentire più a fondo e più a lungo il vero cambiamento.
Allo stesso tempo il modo entusiasta di mostrare in psicoterapia la sua comprensione di sé e delle dinamiche, può lusingare e far piacere come professionisti ma può ingannare sottraendoci dal sentire la genuinità o meno di questa consapevolezza.
A maggior ragione ritengo che un modello di Psicoterapia che utilizza l’interpretazione dell’inconscio onirico e relazionale abbia necessità, soprattutto nelle fasi avanzate del lavoro, di una continua alternanza tra attività psicodinamica vera e propria e osservazione, ascolto e riflessione dei movimenti del paziente sul campo, cioè nella qualità relazionale esterna riacquisita in Psicoterapia.
Nella mia pratica clinica dedico questa alternanza soprattutto all’interno del lavoro di gruppo.

Per esempio mi è capitato di apprezzare una situazione del genere per cui alcuni membri portavano le descrizioni del cambiamento, la loro soddisfazione e molto altro, trainando per un certo periodo il gruppo in una fase molto ragionata sul lavoro psicoterapeutico in cui mi rendevo conto che perdevo un po’ troppo il sentire, anche se erano in una fase avanzata del percorso e quindi si lavorava più sul pensiero e sul quotidiano che sulle dinamiche inconsce.
Così spontaneamente un giorno ho proposto di sospendere completamente i fatti e ritornare al racconto e all’interpretazione dei sogni potendo così in poche sedute distinguere i movimenti coerenti al pensiero cosciente e quelli che invece nascondevano delle resistenze o delle dinamiche che si erano riattivate in risposta al tanto pensiero cosciente che era stato portato come materiale di lavoro in psicoterapia.
Per fare l’esempio opposto, è capitato altresì in gruppo di attraversare periodi in cui i pazienti erano molto presi e rivolti alle dinamiche inconsce portando sogni, sensazioni, vissuti ed emozioni genuine ma che poi sembravano restare come espressione possibile solo all’interno del setting e pertanto ho cominciato ad accompagnarli su un livello più concreto rivolgendomi ai fatti, alle relazioni esterne, a come si muovevano concretamente nel quotidiano e anche lì si è potuto affrontare come alcuni stessero coniugando spontaneamente l’elaborazione profonda con la vita di tutti i giorni mentre altri erano più bloccati nel passaggio all’esterno del personale processo psicoterapeutico.

Ogni gruppo pertanto si muove con una sua forma specifica che è sempre in divenire a maggior ragione se parliamo di gruppi aperti che prevedono la possibilità di ingresso di nuovi membri e il confronto con i pazienti che al contrario terminano il percorso psicoterapeutico lasciando il gruppo.
Attività dello Psicoterapeuta è pertanto saper riconoscere i rischi descritti soprattutto in una fase evoluta del lavoro quando il cambiamento è in atto e quindi sono più complessi da intuire e affrontare.

Michele Battuello