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Ancora sulla Formazione dello Psicoterapeuta


La formazione dello psicoterapeuta è alla base della capacità di relazione e di cura, pertanto di intuizione della psicopatologia del paziente per risolverla.

Il Centro di Psicoterapia di Roma, come più volte descritto (https://www.mbpsicoterapia.it/la-formazione-dello-psicoterapeuta-e-il-lavoro-di-gruppo/ ), si occupa di Formazione in quanto intrinseca nel processo psicoterapeutico.

Proponiamoci quindi di cambiare il punto di osservazione, di studio e di ricerca: il processo e i risultati della psicoterapia sono secondari e diretta conseguenza della capacità dello psicoterapeuta.

L’osservatore, lo psicoterapeuta diventa l’osservato primario.

Non riteniamo completo un processo di formazione che porta a trovare gli strumenti necessari per conoscere il paziente se insieme non racconta lo psicoterapeuta.

Pertanto non possiamo affrontare la Psicoterapia se prima non parliamo di Formazione.

Se consideriamo la relazione come un rapporto paritario essere umano-essere umano e la fisiologia umana ci dimostra che è così, sarebbe più appropriato non raccontare nemmeno di un prima e di un dopo, prima lo psicoterapeuta e dopo il paziente, come accennato, ma la descrizione delle due figure dovrebbe mantenersi su un piano di contemporaneità.

Visto che la relazione è sì paritaria ma l’obiettivo è diretto verso il paziente per risolvere e affrontare la sua sofferenza, ci possiamo permettere un prima lo psicoterapeuta e dopo il paziente.

Solo da qualche anno è aumentata la necessità di valutare a fondo la formazione dello psicoterapeuta come dimostrano gli studi e le ricerche in materia.

Se facciamo riferimento al Manuale più consultato sull’argomento, I. Yalom, Teoria e Pratica della Psicoterapia di Gruppo, ci accorgiamo che l’ultimo capitolo è dedicato a “La formazione del Terapeuta di Gruppo”.

L’ultimo capitolo è dedicato alla formazione: costruiamo la casa e poi progettiamo le fondamenta, può sembrare contraddittorio ma il fatto si spiega considerando che l’esaustivo lavoro di Yalom è stato pubblicato nel 1974 per la prima volta in Italia e la descrizione delle tante variabili del lavoro e del processo psicoterapeutico di gruppo erano avveniristiche e raccontate con una prosa coinvolgente che, a ragion veduta, ha rappresentato e rappresenta tuttora il compendio per eccellenza a prescindere dalla spazio dedicato alla formazione.

Ma se prendiamo un volume più recente, “Le Psicoterapie: Teorie e modelli di intervento”, di un professore della portata di Glenn O. Gabbard, il capitolo sulla formazione non esiste proprio: curioso.

L’argomento inizia a farsi interessante e allora aggiungiamo due ulteriori risultati di semplici ricerche alla portata di chiunque.

La prima è la descrizione della parola “Formazione” nel Vocabolario Treccani on line (www.treccani.it), che, nei vari riferimenti lessicali del termine, riporta: “…con uso assol., l’età, il periodo della f., dello sviluppo fisiologico e psichico; anche il risultato, cioè l’insieme delle conoscenze e della cultura acquisite in un determinato settore specifico: avere una buona f. tecnica, musicale. Con le varie accezioni, la locuz. Avv. e agg. in formazione, che si sta formando, in via di costituzione, di sviluppo”.

Scorrendo il lungo paragrafo “formazione”, in maniera sorprendente si arriva all’ultimo punto che cita: “Con sign. più astratto, in psicanalisi (per traduz. Del ted. Bildung), il formarsi in un soggetto di un aspetto, di un comportamento, di un tratto di personalità, che si costituiscono prevalentemente come meccanismi di difesa, e si specificano variamente a seconda della natura e della funzione: f. reattiva (v. reattivo, n. 1 c); f. sostitutiva (v. sostitutivo, n.4); f. di compromesso, qualunque manifestazione (per es. un sintomo nevrotico) che rappresenti il risultato di un compromesso tra due istanze in conflitto”.

Credo che stupisca accorgersi che l’unico riferimento di carattere psicologico inerente al termine “formazione” sia specificamente psicoanalitico e inoltre rivolto alla descrizione di un meccanismo di difesa in totale contrapposizione alla descrizione assoluta del termine che parla “…dell’età dello sviluppo fisiologico e psichico”.

La sorpresa si trasforma in perplessità e andando a cercare meglio la voce “formazione” nel Dizionario di Psicologia curato da U. Galimberti all’interno della collana “Le Garzantine” si legge: “Processo teso allo sviluppo compiuto dell’individuo sia in termini di personalità psicologica sia in termini professionali”. Segue una descrizione in ambito antropologico e pedagogico, arriva finalmente l’ambito psicologico vero e proprio per cui “…se ne parla in psicologia del lavoro e psicologia industriale”. Il Dizionario conclude così: “Infine in ambito psicoanalitico ci si riferisce alla formazione degli analisti che avviene secondo le procedure previste dall’analisi didattica”.

La voce “Analisi Didattica” che, oltre a essere uno strumento solo per gli psicoanalisti, è descritta come “trattamento a cui si sottopongono i candidati”; il didatta deve “…giudicare…” se il candidato può essere “…ammesso a ulteriore addestramento…”; l’analisi didattica viene completata con “…l’analisi di controllo o supervisione…”.

È necessario cambiare il pensiero che sta dietro a queste parole perché oggi la formazione è molto altro anzi qualcosa di completamente diverso: le parole imperative riportate in merito al significato di formazione implicano la necessità di un obbligo per l’allievo psicoterapeuta, poiché è un dovere.

Nessuno mette in dubbio la necessità istituzionale e quindi anche formale di una preparazione teorico-pratica, importantissima e non sostituibile, ma il messaggio che essa contiene in origine è “devi formarti”.

Il processo spontaneo di desiderio di adeguamento della propria identità al divenire psicoterapeuta è represso alla sua fonte.

La contraddizione si manifesta in seguito quando ci si trova di fronte ai pazienti e nella maggioranza dei casi li vogliamo aiutare a capire e poi a uscire dai numerosi doveri che la famiglia e il mondo circostante gli hanno imposto e che loro stessi hanno poi costruito come vincoli imprescindibili dentro i quali si sono trovati imprigionati e inevitabilmente a soffrire.

Si tratta di sovrastrutture che condizionano il modo di relazionarsi agli altri, del vivere le passioni, gli interessi, obbligando spesso le persone inconsapevolmente a far ruotare l’esistenza intorno a regole.

Queste regole possono corrispondere a meccanismi di difesa storici e pertanto così ferrei da vincolare l’esistenza a dipendenza, al bisogno di riconoscimento, alla necessità di possedere o essere posseduti e altre manifestazioni disfunzionali per il disagio e il malessere prolungati che generano.

E allora, non è surreale che chi vuole aiutare l’altro a liberarsi dal suo dover essere abbia iniziato il suo percorso professionale con un messaggio esplicito di dovere?

Laddove l’Istituzione essa stessa contiene al suo interno una regola, altrimenti non sarebbe istituzione, nel nostro specifico ambito che ha a che fare con l’umano, la regola (unica ed eventuale) è che lo psicoterapeuta maturi la capacità di mettersi in discussione come essere umano.

Anche in questo caso è necessario un capovolgimento del punto di vista: la realizzazione dell’identità non è essere psicoterapeuta ma è essere la persona che siamo.

Solo così il realizzare se stessi, che comprende un forte senso di autonomia, ha come conseguenze e vantaggi secondari il funzionamento professionale, di coppia, genitoriale e dei vari e numerosi ambiti delle attività umane.

Spesso invece accade che prevalga il bisogno di sentirsi professionisti/lavoratori, di essere genitori, o partner ma questo proietta all’esterno la ricerca di un senso del Sé che invece deve essere maturato internamente e soggettivamente.

Il rischio è che così ci sia un sovra investimento in quello che si cerca di fare e se per caso, come può capitare nel percorso di vita, il progetto non si concretizza del tutto o solo parzialmente si comincia a perdere il senso di identità e di certezza di sé, con paure e angosce associate che non sono coerenti con il fatto avvenuto ma riportabili invece alla ferita identitaria riaperta.

Immaginiamo cosa può succedere se tale bisogno di dare un senso al “chi sono” avviene nello psicoterapeuta rispetto al proprio lavoro: il paziente inevitabilmente subisce questa responsabilità che non ha niente a che fare con la relazione psicoterapeutica.

Si attivano interferenze importanti con il processo di cura. Lo psicoterapeuta può proiettare rabbia, insoddisfazione, dipendenza, evitamento, all’interno del setting se la relazione psicoterapeutica non gli fornisce certezze e conferme sul suo essere in grado di risolvere le problematicità del paziente.

Per evitare questi ostacoli, l’obiettivo cardine della formazione è rendere la consapevolezza della necessità di un sé integro, un elemento spontaneo dell’essere psicoterapeuta in divenire per permettersi di essere più liberamente attivi all’interno della relazione.

 

Gabbard G.O. (2009). Le Psicoterapie – Teorie e modelli di intervento. Milano: Raffaello Cortina, 2010.

Galimberti U. (1999). Le Garzantine – Psicologia. Torino: Garzanti.

Treccani, Vocabolario on line. http://www.treccani.it/vocabolario/formazione/.

Yalom I.D. (2005). Teoria e Pratica della Psicoterapia di Gruppo – Quinta edizione riveduta e aggiornata. Torino: Bollati Boringhieri, 2009.

 

Michele Battuello