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Ancora su Autonomia/Indipendenza: un nuovo monoteismo


L’aumentata frequenza di messaggi che propongono e rinforzano la meta dell’indipendenza della persona-paziente, promulgati da una non esigua parte della Cultura Psicoterapeutica https://www.mbpsicoterapia.it/la-cultura-psicoterapeutica/ , inizia ad assumere un livello di ridondanza e saturazione che, credo, debba stimolare un’altrettanta rappresentatività degli psicoterapeuti a riflettere e rispondere.

Sono a disposizione da anni innumerevoli figure che promuovono il monoteismo dell’Io, trainer, coach, esperti in team building, meditazione e derivati fino a contaminazioni improprie di ogni tipo tutte rivolte al business dell’individualismo, mascherato dalla ricerca dell’autonomia.

La Psicoterapia è, invece, altra materia umana che, nel perseguire l’obiettivo di cura, non può sostenere un modello unidirezionale focalizzato sull’Io appunto.

Indipendenza si identifica spesso con l’analogo sostantivo autonomia ma entrambi i termini vanno colti nei significati che gli si attribuiscono più che nelle due parole prese isolatamente o messe insieme.

Il contenuto cui mi riferisco e critico, è la ricerca di una forma di identità, una rappresentazione cosciente e, di conseguenza, una personalità, che si sostenga sulla consapevolezza che il paziente acquisisce di se stesso e che non abbia necessità (più) di dipendere e fare riferimento agli altri.

Il nodo che rimane irrisolto e quindi ingannevole è che questa indipendenza, proposta dalla Cultura Psicoterapeutica e inevitabilmente fatta propria dai pazienti che seguono il messaggio, non perché incapaci di maturare un proprio pensiero ma perché guidati dalla fiducia affettiva nei confronti dello psicoterapeuta, parla solo alla prima persona singolare: Io.

Si continua a consolidare una relazione non paritaria all’interno della quale il professionista è sempre in una posizione sopra al paziente, rispecchiando così una gestione di ruolo e potere, analoga a quella che il paziente ha incontrato nel suo percorso, a partire dai genitori, con lo scopo di aiutarlo a trovare le strategie per utilizzare al meglio e con efficacia il pronome personale Io.

Così lo/la psicoterapeuta diventa l’Io di riferimento, teoricamente sano e risolto, che può guidare, a questo punto direi insegnare, come perseguire l’Io autonomo del paziente.

È facile constatare che la persona-paziente acquisisce un modello di personalità, assunta all’interno della relazione psicoterapeutica, sperimentando prima nel setting e un poco per volta anche nel rapporto con il sociale, questa nuova o ritrovata capacità ma allo stesso tempo proponendo diametralmente al contrario, un’inversione di ruoli perché il suo Io si è espanso e la I oltre a essere maiuscola è anche ipertrofica.

Tale proposta è oramai sostenuta da numerosi anni dalla società e di conseguenza da una sempre più ampia cerchia della Cultura Psicoterapeutica e non sta funzionando, o comunque ha efficacia breve, sia per il benessere del singolo che della collettività.

I risultati sono osservabili in generale nella società contemporanea e nello specifico negli effetti delle psicoterapie che hanno focalizzato l’obiettivo sull’autonomia e indipendenza (apparenti).

Le persone, compresi ex pazienti, raccontano con maggiore facilità come abbiano dovuto allontanare o troncare alcuni rapporti (che sono soprannominati spesso tossici o patologici), come siano stati in grado di farlo (sempre utilizzando l’aggettivo finalmente) e come riescano oramai a rispondere a tono alle situazioni frustranti.

Le conseguenze di questa mono direzionalità dell’approccio alla relazione con il mondo esterno, arrivano nel breve e medio termine con un vero e proprio isolamento, con la chiusura in una cerchia stretta di parenti, amici o persone ritenute adatte (quasi meritevoli) e soprattutto con un arrocco sull’alta torre del giudizio sugli altri e dell’insindacabile certezza di sé.

Le persone, compresi gli ex pazienti, ne hanno consapevolezza ma non possono ammettere che tutto questo è comunque doloroso, anche se, forse, meno di prima, perché non vogliono (comprensibilmente) riconoscere l’eventualità di un ulteriore fallimento visti gli sforzi fatti in passato e anche durante il lavoro psicoterapeutico per arginare la sofferenza.

L’identificazione con l’Io di riferimento, sociale-culturale e/o psicoterapeutico, è servito a tagliare ponti, molto meno a costruirne e quelli (pochi) nuovi rispondono solo ai criteri di altra e nuova identificazione e riconoscimento con l’uguale a se stessi che riconferma forza e sicurezza.

Se mi riferisco ai pazienti, c’è poca o nulla responsabilità da parte loro in quanto, come introducevo prima, hanno fatto riferimento alla fiducia creata con lo psicoterapeuta, nella ricerca di una risposta al dolore, mentre lo psicoterapeuta ha la responsabilità, spesso involontaria ma presente, poiché segue una determinata Cultura Psicoterapeutica, che insieme a una parte della società, lo ha formato, forse educato, all’obiettivo dell’Io come autonomia e indipendenza per il traguardo dell’individualismo.

Il paziente invece, nel rapporto di cura, costruisce un senso di Sé autonomo che fa capo alla capacità di pensare, fare introspezione, esprimere emozioni che ritornano proprie poiché sottratte alle identificazioni originarie con le figure di riferimento che hanno lasciato la persona parzialmente incapace di sentirsi distinta e separata dall’altro, concentrando le risorse affettive nel guadagnarsi l’amore del mondo esterno.

Le angosce e le paure associate al continuo rischio di perdita del rapporto, si correlano con esperienze precoci di qualità diverse di non integrazione del Sé in riposta all’ambiente (principalmente la famiglia di origine) per cui ogni passaggio maturativo che inevitabilmente contempla una separazione da uno stato acquisito a uno nuovo, è affrontato utilizzando meccanismi di difesa per cercare di procedere in avanti invece di arrestarsi.

Il Sé incerto e fragile (non per origine ma per conseguenza) deve necessariamente sottrarsi alla genuinità del rapporto per evitare l’angoscia: per questo si struttura spesso una personalità che, per avere degli aspetti di funzionalità sociale, deve isolarsi in un Io difensivo estremo, spesso ben celato.

L’incertezza porta dipendenza o evitamento ma in entrambi i casi, la persona non può esprimersi in libertà perché è rimasta vincolata al bisogno dell’altro, dell’identificazione o della fusione con l’altro stesso per cui tutto può essere rappresentato fuorché essere Sé.

Il traguardo dell’autonomia e dell’indipendenza in Psicoterapia, per questi motivi, si realizza offrendo il contenuto e la qualità della relazione che non cerca nessun Io ipertrofico o individualista ma cerca di riportare il paziente a rapportarsi senza dover costruire dei ruoli difensivi né come immagine di sé né come immagine proiettata sullo psicoterapeuta.

Gli strumenti dell’interpretazione della relazione e dei sogni partono dal fondamentale riconoscimento del paziente come persona e dell’intuizione della sua realtà umana e sono finalizzati a restituirgli la capacità di entrare in relazione come persona distinta e separata dall’altro e pertanto con un suo pensiero e affettività.

Per questo la cura non può pensarsi come Io ma come noi, cioè come spontanea attività specie specifica degli esseri umani che è quella di entrare in relazione con gli altri senza doversi aggrappare a ruoli e alterazioni difensive dell’espressione di Sé.

Liberando la persona dalle storiche identificazioni che si sono fondate sull’incapacità di riconoscimento e tenuta dell’affettività del bambino da parte degli adulti di riferimento e su proiezioni emotive e mentali di paure antecedenti dei genitori, il paziente ritrova la relazione paritaria e come conseguenza di essa, gli inevitabili e coerenti ruoli che fanno parte della nostra esistenza.

Il ruolo è naturale conseguenza della specifica attività di una persona in relazione con un’altra: dal genitore, al direttore, allo psicoterapeuta, al figlio, i ruoli sono quelli che ci servono nel nostro stare insieme e dare significato all’esistenza che però partono dal presupposto imprescindibile che tali ruoli si fondano sul riconoscimento dell’identità dell’altro come distinto e separato con una sua mente, una sua affettività e una dignità di relazione uguale per tutti.

Autonomia e indipendenza diventano naturale espressione dell’individuo che si relaziona con il mondo non guidato dal bisogno ma dal desiderio.

L’ex paziente ha ritrovato quindi la possibilità, a differenza del paziente che ha ritrovato un Io in grassetto, di rapportarsi più di prima non solo in quantità ma soprattutto nel poter conoscere, amare e scoprire senza necessità di rispecchiamenti con l’uguale, le vere e numerose differenze degli esseri umani, le cui integrazioni sono da sempre l’arricchimento di ogni gruppo sociale, dalla coppia, alla famiglia, agli Stati e più in là, senza confini.

Quella parte della Cultura Psicoterapeutica che ha perso questo contenuto così originariamente umano focalizzandosi sulla continua solidificazione dell’Io e della personalità individuale, deve riappropriarsene spogliandosi delle sue intrinseche difese.

Il messaggio di individualismo è, in alcuni casi diretto ed esplicito e, a mio parere ha una sua onestà perché propone uno specifico approccio alla persona che, per l’appunto, è rivolto a ingrandire e rinforzare il proprio Io, sicurezza in se stessi, motivazione, capacità di leadership lavorativa e sociale e altro: il paziente può scegliere con chiarezza.

Spesso invece si osserva la maschera che utilizza tutte le ridondanti parole da cui siamo sommersi, empatia, resilienza le più in voga, per camuffare una relazione di gestione dei ruoli, con il volto accogliente e accudente di setting sempre più inclusivi, caldi, conviviali e aperti ma che poi, per esempio, sono costretti dentro la cornice della diagnosi, o della necessità del professionista di affermarsi, o di rispondere a una teoria che si deve sostenere politicamente (ed economicamente), o perché c’è la concorrenza delle tariffe, dei setting oramai a distanza causa/conseguenza del Covid che si propagano a macchia d’olio.

Soprattutto la maschera serve per coprire la diffusione di un pensiero ampio sull’incurabilità di alcune problematiche per cui si rincorrono nuovi farmaci, nuovi approcci alla terapia elettroconvulsivante come chiaro segno di un decadimento del pensiero sull’essere umano e dell’impoverimento della relazione sociale più che di una vera impossibilità di risoluzione della psicopatologia.

A differenza di molti campi della ricerca scientifica che ampliano le scoperta con grande velocità, nel campo della salute mentale invece, la direzione osservativa solo sul paziente e sui suoi trattamenti non ha il coraggio di invertire lo sguardo su come il pensiero svalutato sulla realtà umana, stia interferendo con i processi di cura.

La ricerca dovrebbe anche dirigersi verso questo ago della bilancia relazionale e non solo su un iper disamina, analisi e segmentazione della mente/psiche/persona.

 

Michele Battuello