Lavorare sulla diagnosi si sovrappone spesso a lavorare sull’armatura del paziente, i sistemi di difesa.
L’approccio categoriale da cui emerge la persona, valutata con differenti metodi, dai sintomi a specifici strumenti diagnostici, rischia di eludere il nucleo centrale dell’individuo che è invece un importante indicatore di possibilità di rapporto, cioè di Psicoterapia.
Poiché il linguaggio che descrive la relazione, e pertanto, ripeto, la Psicoterapia, è in prevalenza metaforico, da identificazione a resistenze, da risorse a tutto il resto che racconta ciò che avviene nel setting, mi ritrovo ad andare per sottrazione per spiegare in concreto cosa significhi intuire il nucleo centrale del paziente: tutto quanto non rientra nei meccanismi di difesa rappresenta lo strumento di valutazione psicoterapeutica, quello che resta intatto del Potenziale Umano della persona, protetto, difeso, spesso molto nascosto ma comunque presente e rintracciabile https://www.mbpsicoterapia.it/il-potenziale-umano-sintesi/ .
In apparenza questo metodo di pensare la cura, andando alla ricerca di finestre affettive emergenti nell’alleanza psicoterapeutica, sembra strettamente connesso a distinguere il bene dal male, il buono dal cattivo e il bello dal brutto, prendendo il meglio e scartando via il peggio.
Mi ritroverei però a cambiare di poco le carte in tavola, assegnando categorie di giudizio diverse, probabilmente più tollerabili della categoria diagnostica ma comunque affidandomi a una scala di valori che rispecchierebbe miei criteri personali o quelli del paziente, e andrei così a inseguire l’una o l’altra modalità giusta di stare al mondo, seguito dal paziente stesso che si fida di me.
Il processo di cura sarebbe così inficiato da un’attribuzione impropria di obiettivi da raggiungere che non servirebbe altro che a rinforzare le difese della personalità strutturata e indurita dal dolore e in seguito dalla psicopatologia intervenuta per proteggere l’identità vera storicamente bloccata a livelli precoci dello sviluppo per l’inadeguata risposta affettiva dell’ambiente intorno al bambino.
Il riconoscere invece le rappresentazioni sane del paziente è altro rispetto alla distinzione tra giusto e sbagliato e si basa sull’intuire quanto, presentato nel setting, appartenga alle difese e quanto al nucleo identitario genuino.
Le personalità patologicamente irrigidite non esprimono soltanto aspetti disfunzionali dell’identità, al contrario attivano risorse affettive anche evidenti ma rivolte in prevalenza a sostenere le difese necessarie a consentire una qualche forma di relazione con il mondo laddove non sarebbe possibile per paura, rischio di fallimento, perdita e angoscia.
Il paziente con queste caratteristiche utilizza inconsciamente nella relazione psicoterapeutica le strade efficaci che ha trovato, crescendo, per conquistarsi uno spazio nel mondo e sentirsi amato anche se l’idea che ha di sé è totalmente opposta alla possibilità di fidarsi e credere nei rapporti.
Il bisogno vitale di certezza di rapporto e di presenza cui fare affidamento ha portato negli anni la persona a convogliare le sue risorse affettive, provenienti dalle innumerevoli esperienze relazionali, a rendere il più efficace possibile la personalità costruita come difesa dalla paura del mondo esterno.
Empatia, fiducia, partecipazione attiva e apertura emotiva sono percepibili nel setting ma hanno l’obiettivo di lasciare protetta ed esclusa l’identità originaria, il bambino che, non avendo avuto risposte si è dovuto chiudere nella corazza per crescere pur non sentendosi in grado di e come tale è sempre a rischio di dispersione e perdita di sé.
Il paziente in questo modo è disponibile a mettersi in gioco, a stare in un percorso psicoterapeutico e di lavorare su alcuni vissuti disfunzionali nelle relazioni e il cambiamento può avvenire ma in realtà è solo apparente se lo psicoterapeuta non si rende conto che sta esplorando e modificando solo frammenti poco rischiosi della corazza che invece si mantiene salda e intoccabile.
È necessario riconoscere la qualità delle risorse inconsce attivate dal paziente in Psicoterapia che pur se fenomenologicamente potenti, sono incastrate nella necessità di sostenere una personalità difensiva e, mantenere queste dinamiche senza frustrarle, consegna al paziente stesso un ego ancor più solidificato perché ha trovato una strada più efficace per difendersi e celare se stesso.
Clinicamente i pazienti che presentano tali caratteristiche di personalità che nelle classificazioni categoriali prendono il nome di Disturbi della Personalità, hanno costruito una possibilità di stare al mondo che, seppur difficile per le conseguenze sui piani relazionali, è in realtà efficace in confronto ai vissuti angoscianti che hanno esperito in periodi precoci della vita e che hanno tentato in tutti i modi di evitare e che ancor meno vogliono rivivere quando iniziano il percorso di cura proponendo un’alleanza psicoterapeutica rivolta a sfuggire continuamente il contatto con il senso di vuoto insopportabile.
Lo psicoterapeuta deve essere in grado di riconoscere e distinguere quando le risorse affettive espresse nella relazione psicoterapeutica sono appannaggio del sistema di difesa e questo sostanzialmente si palesa con l’intuizione della presenza di una paura senza oggetto rispetto alle altre.
Nei primi mesi di vita sappiamo che il bambino non ha ancora una maturazione del Sistema Nervoso in grado di distinguere tra sé e il mondo esterno, di conseguenza tutte le esperienze vissute con gli adulti di riferimento fino ai 5-6 mesi sono percepite come esperienze di sé.
Questa finestra temporale è alla base di un iniziale senso di identità perché la risposta affettiva pone le fondamenta dello sviluppo e dell’attivazione del cervello destro, indispensabile per l’intero sviluppo psicofisico del bambino.
Esperienze di scarsa presa in carico della vitalità del bambino che si realizzano con episodi di distacco emotivo della madre causano l’instaurarsi di un potente senso di vuoto dovuto al fatto che il bambino percepisce quell’assenza non come perdita dell’altro, non ancora visualizzabile, ma come perdita di sé, esperienza intollerabile perché equivalente alla non esistenza.
Si genera un vero e proprio buco che di solito obbliga il bambino a vigilanza precoce e che si trasforma in un senso di sollievo nel momento in cui inizia, per maturazione neurologica, a riconoscere che c’è qualcuno al di fuori di sé e sviluppa così un iper attaccamento al rapporto con la madre perché l’aver trovato l’oggetto gli permette di scappare dall’angoscia senza oggetto.
Il bambino è obbligato a identificarsi, addirittura in molti casi, a fondersi con l’oggetto madre, perché ogni momento di separazione da lei, determina inevitabilmente angoscia di ritrovarsi nel vuoto, nell’impossibilità esistenziale, che con metafore adulte possiamo visualizzare come rischio di morte o di impazzire.
Ne consegue intuitivamente che la potente identificazione con l’adulto contiene in sé aspetti relazionali che costituiranno i vissuti depressivi dell’adolescente o dell’adulto, sostenuti in generale da un fondo di incertezza e continua necessità di evitare in tutti i modi l’angoscia, costruendo sempre nuove identificazioni nel percorso di crescita e non potendo mai esprimere un senso genuino di sé.
Il bambino precocemente si è chiuso in una corazza e le esperienze successive che comunque hanno dato in parte o del tutto risposte affettive efficaci, servono soltanto a rendere la corazza più accettabile dal mondo esterno così che da una parte si eviti l’angoscia e dall’altra si possano costruire rapporti che continuino a garantire la certezza della presenza da contrapporre all’assenza, intollerabile.
Per questo sostengo sempre che le risorse sono in questo modo asservite ai meccanismi di difesa.
Il paziente quindi da una parte chiede di trasformare le esperienze depressive che può offrire alla relazione psicoterapeutica perché sono comunque riferibili a paure che hanno sempre un oggetto, il rapporto e affrontabili seppur fonte di sofferenza, ma l’angoscia originaria deve essere sempre tenuta difesa perché il suo emergere metterebbe a rischio l’esistenza stessa.
L’intuizione dello psicoterapeuta è proprio il riconoscere l’esistenza di questa realtà apparentemente senza oggetto del paziente che rappresenta la vera possibilità di cura perché se lo psicoterapeuta intuisce, questo è imprescindibile dal fatto che la persona che ha di fronte in qualche modo sia in contatto inconsapevolmente con il nucleo centrale di sé, il bambino bloccato, anche se tenta di difenderne l’emergenza con le costruzioni psicopatologiche.
La bi-direzionalità della relazione è il fondamento dell’alleanza psicoterapeutica nei casi di grave indurimento della personalità e si fonda sulla restituzione al paziente di questa capacità ancora conservata di voler ritrovare ed esprimere la vitalità bloccata ai primi mesi di vita, liberandola dall’angoscia di annullamento e sparizione di sé.
I sogni sono fondamentali per il lavoro su queste angosce sia perché esprimono con maggiore evidenza le esperienze precoci che il qui e ora del paziente ha comunque modificato e alterato sempre a scopo difensivo e soprattutto perché ci raccontano quando è il momento per il paziente stesso di poter affrontare il vuoto.
Quando i sogni iniziano a rappresentare immagini che contengono quell’esperienza, confermano che la relazione psicoterapeutica ha realmente offerto al paziente la fiducia nel rapporto e la consapevolezza che il buco originario era dovuto al mondo esterno e non a un sé precario e inesorabilmente condannato al perpetuarsi di quei vissuti senza nome da cui dover fuggire per tutta la vita.
Nella pratica clinica, infatti, pur avendo fin dai primi incontri l’intuizione che a monte di quello che il paziente sta presentando, c’è la paura del vuoto e della perdita di sé, non è sempre necessario né tantomeno efficace verbalizzare subito questa consapevolezza perché porterebbe alla fuga del paziente o a un terremoto emotivo ingestibile.
Il lavoro sui vissuti depressivi e sulle dinamiche identificatorie a essi associati, è pertanto percorribile ma con la consapevolezza che si sta lavorando sugli assetti difensivi della personalità, quelli che il paziente può affrontare e che servono anche a proteggere ulteriormente il bambino sotto la corazza.
Le interpretazioni conseguenti aumentano, passo dopo passo, il recupero di una vitalità sufficiente a potersi realmente affacciare sull’abisso del vuoto e del senso di perdita e riconoscere che lì si trova il bambino che da anni attende di trovare il rapporto che riconosca la sua identità come possibile, invece di consegnarla al fallimento per una colpa originaria, inesistente.
Michele Battuello