Solo quando l’esperienza angosciante è trasformata con la relazione psicoterapeutica in un contenuto che può essere toccato e affrontato perché ha una sua oggettivizzazione al contrario del non oggetto/morte che prima rappresentava, il processo di cura si dirige alla risoluzione delle dinamiche di identificazione.
Si attenua, fino a sparire, la continua tensione che il paziente ha mantenuto per anni, rivolta a tenere integro se stesso, soffocato dalla paura di frammentarsi, perdersi e impazzire.
Uno stato di angoscia che impegna gran parte della giornata, in un’attività mentale di controllo che brucia l’energia (vitalità) psico-fisica della persona, lascia pochi spazi di respiro e di focalizzazione su altro, su una vita oltre all’evitare la disgregazione, e l’esistenza purtroppo si riduce alla percezione che il passato sia solo malessere e il presente senza opportunità di provare piacere.
L’allerta frequente legata al rischio che il vuoto, angoscia senza oggetto e nomi apparenti, possa comparire da un momento all’altro in maniera devastante, limita le possibilità di investimento affettivo del paziente sul mondo esterno e per questo, le esperienze efficaci, affettivamente significative, che comunque ci sono state nell’arco di vita, restano non contattabili finché non è risolto il nucleo precoce di assenza di rapporto inteso come dinamica anaffettiva agita dall’/dagli adulti di riferimento.
Il paziente si libera così di un fardello che ottenebrava gran parte delle sue capacità umane ritrovando l’esperienza più intensa e gratificante che è quella del poter ricominciare a respirare e, nel tempo, provare di nuovo piacere.
Sia che il proteggersi dall’angoscia fosse nascosto da meccanismi di difesa attivati per mascherare il rischio con un alto funzionamento (apparente) della personalità, sia che fosse più evidente e manifesto, il respiro fisico e mentale che il paziente ritrova nel lavoro psicoterapeutico, apre al cambiamento e, soprattutto al permettersi di contattare e sentire le esperienze affettive di piacere, rimaste presenti nella memoria inconscia ma negate dal vissuto cosciente perché rischiose.
Queste risorse sono fondamentali per affrontare le dinamiche di identificazione che fanno capo alla scarsa risposta affettiva dell’adulto alle richieste spontanee del bambino quindi a un tempo dello sviluppo psico-fisico in cui l’altro poteva essere percepito come diverso e distinto da sé, temporalmente dopo i primi mesi di vita https://www.mbpsicoterapia.it/consapevolezza-del-superamento-dellidentificazione-nei-sogni-in-psicoterapia/ .
Le dinamiche di introiezione e successiva identificazione con l’oggetto-genitore sono quelle che solitamente sviluppano nell’adulto i quadri clinici dello spettro ansioso e depressivo o misto, in sostanza delineano le difficoltà del paziente nel sentirsi distinto e autonomo dal mondo esterno e di conseguenza il bisogno di legarsi alla risposta e alla presenza dell’altro, siano esse all’interno di una relazione vera e propria e/o anche una rappresentazione oggettuale/materiale di rapporto, come il lavoro, lo status sociale e una personalità culturalmente accettata. https://www.mbpsicoterapia.it/separazione-dalle-dinamiche-identificatorie-e-recupero-della-vitalita-in-psicoterapia/
Come tante volte ho raccontato, al polo opposto del rapporto con l’oggetto c’è il non-rapporto, l’assenza che vincola il bambino e l’adulto-paziente a sospendere il lasciarsi andare e a proteggersi nella veglia, nella coscienza, nella mente e nel controllo per evitare o gestire l’angoscia senza volto della frammentazione cronologicamente collocata nei primi mesi di vita https://www.mbpsicoterapia.it/separazione-dalle-dinamiche-identificatorie-e-recupero-della-vitalita-in-psicoterapia/ .
Il non esserci affettivo e/o fisico precoce del genitore è percepito dal bambino come perdita di sé, non essendo ancora neurologicamente matura la distinzione tra io e l’altro, e il vissuto lascia, oltre attivazioni di allerta nel qui e ora della vita neonatale, tracce mnesiche che perdureranno nell’adulto come ritorno del vuoto innescato dalle esperienze che comportano un investimento affettivo importante.
Il ricordo inconscio dell’angoscia associata al lasciarsi completamente andare, tipico del bambino nel primo anno di vita, porterà l’adulto a strutturare dei meccanismi di difesa per evitare il contatto con tali esperienze e pertanto di vivere le forti emozioni anestetizzandone l’intensità o, se questo impossibile, esprimendo un’importante instabilità emotiva, causa di sofferenza.
Il paziente in questo modo si ritrova a portare con sé la sensazione preoccupante, e spesso continua, che il vuoto possa arrivare da un momento all’altro proprio perché senza oggetto e parallelamente a convivere con l’immaturità emotiva dovuta al blocco, che possiamo considerare traumatico, durante lo sviluppo psicofisico precoce che ha lasciato il bambino alla ricerca di protezione, limitando l’espansione fisiologica delle possibilità relazionali ed emotive https://www.mbpsicoterapia.it/separazione-dalle-dinamiche-identificatorie-e-recupero-della-vitalita-in-psicoterapia/ .
I quadri clinici conseguenti a queste esperienze rientrano nei casi estremi nello spettro psicotico, quando la frammentazione non trova, nella crescita del bambino, risposte affettive sufficienti a costruire un’identificazione per lo meno salvifica.
Mancando ancore di salvataggio identificatorie, all’adolescenza, l’ex bambino, oramai quasi adulto si ritrova a fronteggiare forze interne opposte e laceranti rappresentate da un lato dal bisogno di mantenersi a tutti i costi integro, evitando in questo il confronto con le prime dinamiche di separazione, perché ogni separazione è critica e potenzialmente distruttiva, e dall’altro lato dall’inevitabile crescita psicofisica con le risposte di adeguamento che il contesto socioculturale di appartenenza richiede.
L’estrema tensione che, nel periodo finestra, dal primo anno di vita fino all’adolescenza, non si è potuta allentare per cause oggettive della qualità affettiva ricevuta e conseguenze soggettive di chiusura intrapsichica, può slatentizzare esperienze psicotiche di distacco dalla realtà che non possono essere considerate quindi costituzionali ma secondarie all’ambiente affettivo di provenienza.
Nella maggior parte dei casi invece, la frammentazione e la perdita di sé, hanno trovato riparo nei meccanismi di difesa, condensati nelle dinamiche identificatorie, associati a risposte qualitativamente (in termini di affettività) sufficienti a offrire al bambino un’ancora di salvezza.
Quando infatti, nella seconda metà del primo anno di vita, l’altro inizia a essere neurologicamente percepito come distinto da sé, è inevitabile la costruzione conscia, ma soprattutto inconscia di un iper legame con il genitore, l’adulto, poiché rappresenta la possibilità per vivere rispetto al vuoto di cui ha fatto esperienza nei primi mesi.
Per questo il bambino costruisce una forte identificazione e in alcuni casi una vera e propria fusione con il rapporto, trovando nel legame più stretto possibile, il minor rischio di smarrimento.
Lo sviluppo è permesso solo se l’immagine interna è vincolata a quella della madre, nella maggior parte dei casi, e l’investimento affettivo è orientato a mantenere l’identificazione per affrontare le separazioni che, è facile intuire, corrispondono al maggior rischio esistenziale poiché associate al ritrovarsi da soli in balia del vuoto.
Proprio perché crescere, che sostanzialmente significa, separarsi da un’esperienza conosciuta per viverne un’altra sconosciuta, è vissuto come responsabile del ritorno dell’angoscia, per cui è necessario legare sé all’altro in termini di immagini interne, il corrispettivo cosciente dell’affrontare il rischio di diventare adulti è la personalità che si struttura progressivamente in maniera difensiva, fino a dare origine ai quadri dei disturbi veri e propri della personalità.
Questa corazza serve unicamente a difendere il bambino originario, l’affettività spontanea, il Potenziale Umano di ognuno di noi, rimasto bloccato e indifeso dall’esperienza anaffettiva di cui ho parlato https://www.mbpsicoterapia.it/il-potenziale-umano-sintesi/ .
A seconda dell’intensità e della durata delle esperienze precoci, questo nucleo è poco, pochissimo accessibile alla relazione psicoterapeutica e prima ancora, al rapporto con il mondo esterno, protetto dalla maschera della personalità che si esprime solo attraverso il canale dell’identificazione o della fusione, cercando di evitare il contatto con il nucleo profondo.
L’identificazione, in questi casi, ha permesso al bambino di salvarsi dall’esperienza di angoscia e morte percepita come endogena, quindi pur se disfunzionale e patogena, è efficace nel suo obiettivo salvifico, ed è da separare dalla dinamica di identificazione che avviene invece nei casi in cui il bambino non ha vissuto precocemente l’assenza di rapporto ma ha trovato una risposta affettiva carente dal mondo esterno quando era già in grado di distinguere l’adulto come non sé.
L’identificazione con la madre seppur fondamentale, ha causato un blocco affettivo a livello dei bisogni che andranno a coinvolgere l’identità dell’adulto in un’immagine di sé alla continua ricerca della soddisfazione dei bisogni irrisolti, proiettati in rapporti adulti, obiettivi di vita e ideali di sé, difficilmente soddisfacenti perché investiti di significati altri rispetto alla loro realtà effettiva.
Per semplicità narrativa vorrei chiamare questa identificazione che compare in assenza di esperienze di frammentazione precoce, primaria mentre quella che segue ai vissuti di non rapporto dei primi mesi di vita, secondaria.
Le due identificazioni così distinte hanno aspetti relazionali simili ma funzioni completamente diverse e devono essere ben distinte in Psicoterapia per l’efficacia della cura.
Per comprendere meglio l’identificazione di secondaria è necessario tornare alla corazza rappresentata dalla personalità difensiva.
Come conseguenza della paura di frammentazione e perdita di sé il bambino non appena riconosce l’adulto distinto da sé, si identifica potenzialmente con quell’immagine incorporandola e utilizzandola come salva vita, letteralmente.
Il vantaggio di questa dinamica non fisiologica è di vivere invece di morire e pertanto proseguire la crescita psicofisica nutrendosi dell’affetto che il bambino stesso iper investe sul genitore, lo svantaggio è che non riesce a sviluppare un’identità autonoma e ogni separazione è sempre un rischio potenziale di riaffacciarsi sull’abisso.
L’identificazione, quindi, protegge ma non risolve la paura che l’angoscia di morte possa comparire, così la strategia che il paziente crescendo ha utilizzato è stata la costruzione di una personalità che potesse essere efficace per arginare a ogni modo il rischio dell’angoscia stessa.
L’obiettivo sostanziale è possedere i rapporti per non perdersi, guadagnandosi l’amore dell’altro a tutti i costi.
Non sentendo il paziente un’identità stabile e sicura, ha avuto la necessità di prendere sia i contenuti che le forme dal mondo esterno, a partire dalla madre e proseguendo nei rapporti adulti, cercando di imitare e rispecchiare le rappresentazioni di identità più socialmente accettate e riconosciute dal suo contesto.
Questo processo non è solo svantaggioso ma permette alla persona anche di utilizzare in qualche modo delle risorse affettive, cognitive e creative, seppur sottoposte al bisogno di rimanere integri e non perdersi nel vuoto.
La maschera, la personalità così costruita, è la corazza che serve a mantenere distante il bambino originario e poiché ha in sé le lacune affettive ed esperienziali precoci, è instabile e carente in molti suoi aspetti, per cui il paziente è inconsciamente alla ricerca in Psicoterapia di una risposta che renda la personalità ancora più salda, pertanto difesa.
Durante i primi tempi di lavoro psicoterapeutico mi capita di osservare che il paziente offre la corazza come se corrispondesse alla sua identità originaria, cercando di migliorarla, lavorando quindi sull’identificazione secondaria, rappresentata dagli aspetti sociali e relazionali considerati instabili.
Gli aspetti depressivi e ansiosi che presenta, quindi, sono l’effetto dell’identificazione secondaria con cui il bambino ha dovuto inglobare e fare suo il rapporto con l’adulto e tenerlo sempre stretto: la differenza con l’identificazione primaria è che il miglioramento di quest’ultima libera il paziente dal bisogno restituendo l’accesso al piacere, il lavoro su quella secondaria è che da una parte il paziente anche in questo caso sta meglio ma dall’altra rinforza la corazza migliorando in realtà il suo sistema di difesa invece di liberarsene.
Clinicamente con il lavoro psicoterapeutico entrambi i pazienti migliorano ma una è una cura che realmente ha intuito la realtà umana sottostante alle dinamiche di identificazione, l’altra è una guarigione apparente poiché in sostanza l’ex paziente è sempre preoccupato dal vuoto e dal senso di morte, non riconosciuto, intuito e risolto in psicoterapia: lo ha soltanto maggiormente allontanato.
Non a caso, qualsiasi esperienza possa proporre dinamiche di separazione importanti e quindi di un investimento affettivo ancora rischioso, innesca di nuovo la sintomatologia che, al massimo è gestita e affrontata meglio, perché il paziente ha imparato, anche grazie alla Psicoterapia, a difendersi, lavorando sull’identificazione secondaria.
Non distinguere le due situazioni è frequente e cambia sostanzialmente gli effetti della cura, come detto.
Anche se nessuna relazione umana è replicabile così come le dinamiche sottostanti ai rapporti sono sempre specifiche, per maggiore chiarezza narrativa provo a sintetizzare la differenza del lavoro in Psicoterapia quando si incontrano l’identificazione primaria e secondaria.
Il punto focale è l’intuizione e il riconoscimento nel vissuto del paziente, di un’esperienza precoce di assenza di rapporto che ha dato origine ad angoscia e rischio di frammentazione.
Se questa non è esistita, il bambino che ha trovato un adulto che non rispondeva pienamente al suo investimento affettivo spontaneo (il Potenziale Umano), si è identificato con il genitore e il processo psicoterapeutico lavora su questi aspetti che considero conseguenti all’identificazione primaria.
A eccezione di esperienze in cui l’assenza affettiva del genitore è stata sostanziale e continua, nella maggior parte dei casi che si osservano in Psicoterapia, la frammentazione a essa conseguente, si è integrata con delle risposte affettive che hanno compensato il vuoto con un discreto funzionamento della personalità del paziente.
L’angoscia è pertanto camuffata ed evitata da una personalità strutturata per difendersi.
In questi casi, all’interno dell’alleanza psicoterapeutica, inizialmente è possibile accedere all’identificazione secondaria, che è una dinamica successiva all’esperienza anaffettiva di vuoto, pertanto il paziente lavora sugli aspetti disfunzionali della personalità, e pertanto delle relazioni, che provengono dal bisogno di imitare, acquisire, prendere dall’esterno una rappresentazione di identità e cercare di offrirla come propria per l’accettazione, il riconoscimento e l’evitamento dell’abbandono e del rifiuto.
Così si ottengono risultati molto soddisfacenti per la relazione psicoterapeutica e soprattutto per la qualità di vita del paziente ma in realtà questi miglioramenti sono utilizzati per rendere la personalità difensiva ancora più salda, allontanando il rischio di angoscia e frammentazione.
Allo stesso tempo però il lavoro sulle dinamiche di identificazione secondaria permette l’accesso a nuclei vitali di sé, aumentando le risorse per accedere ai vissuti di angoscia e vuoto, che iniziano a potersi scoprire e manifestare.
La riposta affettiva della relazione psicoterapeutica inizia a trasformare il vuoto in un contenuto, per l’appunto affettivo, di fiducia per cui quel nucleo originario difeso e protetto perché associato a morte, ritorna il contatto con il Potenziale Umano del bambino, che finalmente si rivitalizza grazie alla relazione.
Nel tempo la corazza difensiva della personalità costruita utilizzando l’identificazione secondaria cede il posto al bambino originario che contatta l’esperienza del piacere.
In questo ulteriore e fondamentale passaggio, il paziente lavora in Psicoterapia sul superamento del bisogno andando a colmare e trasformare gli aspetti svalutati di sé per relazionarsi con il mondo senza rimanere bloccato in quell’immaturità affettiva e relazionale in cui l’avevano costretto l’angoscia e la successiva necessità di difendersi.
Michele Battuello