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Lo Psicoterapeuta va in vacanza o propone una dinamica di separazione?


Numerosi testi di teoria e prassi psicoterapeutica affrontano gli effetti della pausa estiva e/o invernale che si presenta periodicamente durante il lavoro con i pazienti.

A prescindere dall’orientamento o dal modello di riferimento, l’interruzione della Psicoterapia è una fase che va adeguatamente affrontata perché rimanda in molti casi ad angosce e paure collegate a vissuti precedenti di abbandono e rifiuto e che pertanto si presentano prima che avvenga la separazione o a posteriori con il ritorno a un setting ordinario.

Si parla anche di esperienze di rabbia e aggressività legate al pensiero che lo psicoterapeuta possa trascurare il paziente per andare a divertirsi, a rilassarsi e a distrarsi da mesi trascorsi a farsi carico delle problematiche altrui.

Queste difficoltà sono spesso commentate come risalenti a dinamiche di separazione storiche consce e inconsce vissute con dolore, se non chiaramente traumatiche.

Non è facile però all’interno di questi scritti, trovare il racconto di com’è proposta la pausa estiva nel cosiddetto contratto con il paziente: il rapporto psicoterapeutico prevede un periodo di interruzione del lavoro in determinati periodi, solitamente uno o due l’anno coincidenti con l’estate e il Natale, sembra più un dato di fatto che un dato di significato.

Di conseguenza si fa spesso riferimento ai pazienti che entrano in crisi per le ferie o le vacanze dello Psicoterapeuta e che poi sono interpretate durante le sedute e descritti nella teoria proprio come difficoltà di separazione senza però che questo periodo sia stato proposto fin dall’inizio come cimento sulla separazione stessa.

Nella mia pratica clinica, nel proporre le pause, mi riferisco sempre a delle settimane di separazione specificandone il significato relazionale: sono settimane utilizzate per sperimentare una delle esperienze più complesse della vita fin da quando nasciamo e pertanto anche della Psicoterapia, in tempi più ampi della solita settimana tra una seduta e l’altra.

Non si tratta di esporre il paziente consapevolmente a una delle sue grandi paure ma sperimentare la possibilità che separarsi è realmente possibile perché si fonda su un lavoro costruito insieme nei mesi precedenti.

È un riconoscimento di identità anche nei casi in cui il processo psicoterapeutico non ha portato ancora al superamento dell’angoscia di rifiuto e abbandono o della paura di non farcela da soli, ma al paziente è restituita la consapevolezza che esistono le risorse per affrontare le dinamiche che emergono in Psicoterapia, già esplicitate fin dagli incontri di valutazione (https://www.mbpsicoterapia.it/sugli-incontri-di-valutazione-e-la-liberta-di-scelta/).

Uno dei processi cardine che sono esplorati e trasformati nell’intero processo psicoterapeutico, è l’identificazione con il genitore che, in forme completamente diverse tra un’esperienza e un’altra, ha portato i pazienti a non sentirsi completamente distinti e separati rispetto al mondo esterno e ad attivare conseguenti meccanismi di difesa per proseguire lo sviluppo, la crescita e gli eventi di vita (https://www.mbpsicoterapia.it/sullidentificazione/).

La conclusione degli incontri di conoscenza o valutazione e l’inizio formale della Psicoterapia, hanno per me il significato di comunicare al paziente che entrambi abbiamo intuito che, a prescindere dalla sintomatologia o dalle dinamiche psicopatologiche, si è mantenuta una capacità relazionale e affettiva per costruire l’alleanza psicoterapeutica che è l’unica certezza di poter affrontare il lavoro insieme.

Non è sufficiente la mia intuizione rispetto alle risorse del paziente che colgo molto spesso durante i primi due colloqui sia dalla qualità relazionale che dal contenuto dei sogni ma ritengo che sia fondamentale che anche senza capire, il paziente colga quella sensazione che qualcosa può succedere.

Mi tolgo subito dal piano asimmetrico di chi propone la cura e la risoluzione dei problemi, proponendo invece il riconoscimento di poter, insieme, costruire la relazione di cura anche se il paziente non ne ha sempre comprensione cosciente; più di tutto ne ha l’intuizione.

Le sue fondamentali risorse sono quelle che gli permettono di stare nella relazione, nel suo modo, nei suoi tempi e condizioni ma comunque uno stare che implicitamente comprende anche la possibilità di separarsi.

Fin dall’inizio lavoro pertanto sulla separazione messa in gioco dall’attività di interpretazione della relazione e dei sogni come alternanza tra riconoscimento affettivo delle risorse e frustrazione delle dinamiche patologiche nella misura e nella qualità che, di volta in volta, il paziente rende accessibile al rapporto psicoterapeutico.

Per questo ritengo che la proposta delle due pause annuali e il loro sopraggiungere vadano chiamate e comunicate al paziente non come vacanza ma come esperienza di separazione.

È un atto di riconoscimento che ha un significato diametralmente opposto alla parola interruzione.

Nulla si ferma anzi il lavoro va avanti, il paziente inizia a trasformare la qualità del rapporto psicoterapeutico da realtà in presenza a realtà che può essere interiorizzata come esperienza trattenuta e trasformata in senso di Sé, di appartenenza e di identità, tutt’altro che ferie ma lavoro attivo.

Questo non significa che non mi confronto con crisi, difficoltà e angosce pre e post separazione ma sono esplicitate insieme con i pazienti come assolutamente possibili se non inevitabili soprattutto durante i primi tempi del lavoro, togliendo alle persone la paura di quello che chiamano fallimento, regressione e incapacità.

Ogni situazione è affrontata nel suo significato esplorando le risorse messe in atto e le difese subentrate coerentemente con la storia personale passata e psicoterapeutica in corso: la realtà che ne emerge è che separarsi è difficile ma si può fare come si può inciampare senza però necessariamente pensare che è andato in fumo il lavoro precedente.

In questo modo è vero anche che consciamente ma soprattutto inconsciamente i pazienti sentono una maggiore responsabilità sulla propria tenuta emotiva proposta dal mio forte riconoscimento di identità dell’altro ma poiché non è richiesta nessuna performance di separazione, qualsiasi difficoltà è utilizzata in senso costruttivo.

Tante volte mi domandano: “Che cosa devo fare durante queste settimane?” e la risposta è la più semplice ma spesso più complicata e cioè: “Non devi fare niente se non stare, al massimo ricordarti o annotarti qualche sogno così capiamo meglio come è andata”.

È una proposta che offre sollievo da una parte ma per molti versi richiede una risorsa affettiva importante verso se stessi, lo stare, rispetto al fare performativo cui i pazienti si sono abituati e obbligati per molti anni a causa di difese interne e di richieste pressanti esterne.

Allo stesso tempo per i pazienti che invece affrontano le settimane di separazione in una fase avanzata della Psicoterapia, verso la sua conclusione, sperimentano sul campo di un tempo più prolungato rispetto alla singola settimana, l’esperienza che dopo pochi mesi si tradurrà nel termine della Psicoterapia e pertanto una separazione definitiva dal rapporto.

In sintesi le cinque settimane di luglio-agosto e le tre di dicembre-gennaio sono momenti di intenso lavoro psicoterapeutico per entrambi in quanto anche io mi cimento di volta in volta con la mia personale capacità di separazione dai pazienti e dal loro stato al momento dell’ultima seduta prima del congedo.

La rilevanza che consegno a questo processo concomitante con le settimane di separazione mi porta nella prassi, per esempio, a non iniziare mai una Psicoterapia a meno di due se non tre mesi da agosto o dicembre perché proporrei un’incoerenza tra il significato profondo del periodo di separazione e il fatto cosciente di obbligare il nuovo paziente a sperimentarla precocemente senza delle basi importanti di lavoro insieme.

Raramente inoltre mi è capitato di essere contattato durante questi periodi e non perché non ci siano state situazioni di difficoltà, confermate in seguito da racconti, sintomi e sogni di alcuni pazienti, ma perché la consapevolezza del significato del processo di separazione ha fornito quel sufficiente e importantissimo senso di identità ai pazienti che hanno attivato, fidandosi in qualche modo di loro stessi e del nostro rapporto, consapevoli inconsciamente o consciamente che quello che accadeva era affrontabile.

La nostra relazione in quel momento era assente fisicamente ma presente come capacità affettiva di riuscire a stare e le crisi superabili nel momento in cui ci saremmo rivisti.

Affrontare in questo modo la separazione permette anche di parlare di vacanze dello psicoterapeuta perché rientra nei possibili utilizzi del tempo in cui non ci sono le sedute ma all’interno di un senso più ampio e importante di lavoro attivo della coppia psicoterapeutica come descritto e non esclusivamente in termini di ferie.

Sarebbe comunque controindicato proseguire con gli incontri settimanali senza mai fermarsi da un lato perché non ci sarebbe occasione di sperimentare la dinamica della separazione e dall’altro perché è fisiologico anche prendersi dei tempi più ampi per distogliersi dalla continua focalizzazione su Sé rappresentata dal lavoro psicoterapeutico.

Nella situazione contingente, legata all’epidemia da Covid-19, per la prima volta nella mia prassi, non ho utilizzato dicembre e gennaio come periodo di separazione poiché la realtà esterna di chiusure, divieto di viaggi o spostamenti non poteva rappresentare sul piano concreto una possibilità per i pazienti di rompere la routine e sperimentarsi in esperienze diverse da lavoro-casa-famiglia e avvertivo la separazione soltanto come una regola obbligata cui dovevamo tenere fede e pertanto più come uno strappo che come una possibilità di lavoro attivo rimandato invece più avanti nel tempo in base al miglioramento della situazione sanitaria.

Michele Battuello